Vestiti per gli uomini della montagnaEvoluzione nell'abbigliamentoUn paio di blue-jeans è il sogno di ogni ragazzo ladakho e la sua felicità è al colmo se riesce a comprarne un paio di produzione europea od americana la cui fattura è migliore di quelli d'origine indiana. Con il passare degli anni sarà sempre più difficile parlare di costumi ladakhi maschili poiché i ragazzi preferiscono l'abbigliamento occidentale: jeans, giubbotto e stivaletti. Per le donne il discorso è differente; esse continuano ad indossare il vestito tradizionale ma a Leh già si notano le figlie dei più ricchi che amano passeggiare in calzoni per il centro.Vestiti tibetaniNei villaggi uomini e donne e bambini vestono con la goncha, lungo vestito di panno pesante tessuto in casa e di color grigio, bruno o nero nelle regioni centrale e nel Nubra, mentre è tinto di color vinaccia nello Zangskhar o negli altipiani. Quello degli uomini viene chiamato pho-go, ed è una lunga casacca che scende dalle spalle fin quasi al piede e che conferisce anche ai laici un aspetto fratesco.Il vestito è aperto sul davanti dove i larghi lembi si incrociano ed è tenuto fermo da una fascia di seta in colore scuro che fa più giri in vita (tib. skyarak). Non vi sono bottoni. La veste è di colore scuro, foderata talvolta di pelliccia o di tela rossa. Talvolta si trovano anche abiti di color bianco grezzo che conferiscono un aspetto cencioso se il loro uso è troppo prolungato uso. La veste è spaccata sui lati per conferire libertà di movimento e le maniche sono più lunghe del braccio e talvolta una manica non è infilata. Camicie e pantaloni, in cotone o lana a seconda della stagione, completano l'abbigliamento. I pantaloni sono infilati in grosse ghette di feltro, legate con una benda a spirale nera e rossa, che terminano nello stivale vero e proprio: il pabbu è fatto di lana molle a strisce colorate e la tomaia è confezionata con pelo di yak intrecciato a striscioline, la suola è in cuoio ricavato dalle capre. Quasi tutti gli uomini portano un orecchino, un pendente di turchesi, un cerchio d'argento ed hanno collane di pietre multicolori, turchesi, coralli, corniolini. Spesso portano appeso al collo un reliquiario formato da una scatoletta piatta di rame con ornati di ottone od argento detta kau. Dalla fascia pendono catenelle con una serie di piccoli utensili, chiavi, accendini, coltellini, spilloni. Un lungo astuccio di ferro è il portapenne: contiene una asticciola di bambù usata come pennino. Il sigillo, la ceralacca, ed il calamaio sono in una borsetta a parte. I lembi incrociati del vestito formano una profonda tasca nella quale vengono riposti gli oggetti per il pasto come la tazza di legno e metallo (korè), il cucchiaio e talvolta anche un piatto di metallo. L'abbigliamento delle donne è sicuramente più interessante e complicato. Portano un gran manto di pelliccia (logpa) che protegge la schiena dalle abrasioni che il cesto potrebbe procurare. E’ infatti compito delle donne trasportare i pesi nella gerla che viene sostenuta da una fascia che passa sulla fronte. Questo mantello è alle volte più ricco, la pelle è all'interno ed all'esterno è coperto da un panno color vinaccia. Lo fissano sulla spalla destra con una grossa fibbia con pendenti in argento. Sotto il mantello hanno un corpetto che è chiuso al collo ed ha le maniche lunghe, polso stretto. Una sottana di ampio panno scuro rosso o blù completa l'abbigliamento. Nella valle di Leh si è diffuso il più semplice e meno pesante abito tibetano secondo una moda iniziata con l'apertura del campo profughi. Le ragazze preferiscono portare una semplice giacchetta, una gonna lunga, il caratteristico grembiale a strisce minuscole e colorate ed un fazzoletto con fiori a tinte vivaci. Nei giorni di festa l'abbigliamento è completato dal mantello di broccato e da una miriade di ornamenti. Dalla spalla sinistra, lasciata scoperta dal mantello, pende un fermaglio al quale sono appese catenelle d'argento con minuti oggetti da toeletta: netta unghie, netta orecchie, stuzzicadenti e simili. Ai polsi innumerevoli braccialetti d'argento massiccio o, più preziosi e rari, quelli ricavati da una grande conchiglia marina. E poi collane d'argento lavorato a sbalzo od a filigrana, grandi orecchini a cerchio con pendagli, anelli, ninnoli e tante altre cianfrusaglie preziose (1). Come per il peràk tutti questi ornamenti formano gran parte della dote di una donna e passano di madre in figlia crescendo in numero ed in valore. CopricapiI copricapi che vengono usati in Ladakh differiscono completamente da quelli degli altri popoli himalayani e l'acconciatura del capo è nelle donne strana e pittoresca, sorprendente nella sua generalità. Il centro della testa è coperta dal peràk, una larga benda di feltro rosso, terminante a punta sulla fronte e che scende a coprire la nuca ed il dorso talvolta fino alla vita. Un mosaico di turchesi, corallini, ambre, cornioline, piastre d'argentone e monete d'oro ricoprono il peràk. Ai lati il capo e le orecchie sono coperte da due bende, foderate di pelliccia verso il viso, sotto le quali passano i capelli raccolti in due gruppi di minuscole treccine che poi si raccolgono formando un'unica pesante treccia prolungata da nastri di stoffa nera. Diverse le leggende sulla sua origine: la cuffia sarebbe stata adottata da una regina ladakha che soffriva di otite e che l'avrebbe impreziosita per non suscitare i pettegolezzi delle cortigiane, per altri il peràk raffigurerebbe un serpente e per questo sul davanti vengono posti due grossi coralli rossi che ne ricorderebbero gli occhi. Il peràk viene indossato anche durante il lavoro dei campi.Ma vi sono anche altri copricapo come il tibi, detto anche kantop, che è un cilindro di feltro ricoperto in seta trapuntata, con un largo risvolto dietro e sui lati che in inverno è di pelliccia e copre anche le orecchie (konda). L'uso del risvolto con le punte alzate ricorda molto il più basso cappello degli uomini di Lahul e di Spiti. Vi è anche un altro cappello, una specie di cappello frigio di color giallo-amaranto, diffuso maggiormente fra lo Zangskar e lo Sham e che è detto singge-namtchok il cui uso sarebbe stato introdotto da re Singge. (1) Dainelli, Giotto Il mio viaggio nel Tibet Occidentale, Milano 1934. |