Versione integrale dell'articolo uscito il 6 settembre 2011

SRINAGAR – Il clima nella capitale d’inverno del Kashmir indiano è piovoso con sprazzi di sole accecante che si riflette sul placido Dal lake. Sereno e perturbazioni improvvise corrispondono a ciò che sta avvenendo tra cielo e terra, sulle montagne innevate ai confini con il Pakistan, così come lungo le vecchie strade sotto coprifuoco nella decadente Venezia dell’Est: Srinagar, irrorata di canali solcati dagli shikara, barconi addobbati come gondole e piccole canoe dei pescatori, che in mancanza di turisti ripuliscono flemmatici l’acqua dalle alghe. Dopo anni di una relativa calma e ripresa degli affari, grazie alla drastica riduzione delle infiltrazioni di terroristi dall’Azad Kashmir pachistano, la vita attorno al lago è di nuovo sospesa da quasi tre mesi tra incertezza e paura. Prova ne sono i magnificenti e solitari giardini degli imperatori islamici Moghul, affollati nei fuggevoli tempi di pace da scolaresche e coppie di innamorati a passeggio.

Le loro belle rose oggi fioriscono e appassiscono non viste tra giganteschi chinar e prati ben curati ma vuoti. I giardinieri del governo sono tra i pochi a lavorare per i rari turisti e visitatori che ancora arrivano a Srinagar nonostante una sanguinosissima Intifada a colpi di pietre costata in dieci settimane già 65 morti, di cui la metà sotto i 18 anni e alcuni tra i 9 e gli 11. Ma l’intera Valle, che l’India rivendica formalmente dalla Partizione col Pakistan del 1947, è anche al culmine della più capillare e prolungata serrata indipendentista anti-New Delhi della storia recente. A guidarla con calendari settimanali di scioperi e manifestazioni teoricamente pacifiche – non ci sono state vittime finora tra i soldati - sono i partiti indipendentisti tradizionali, con in testa il vecchio patriarca 84enne Syed Ali Shah Geelani, che ha passato decenni in prigione e ora è tornato di nuovo agli arresti. Ma i veri protagonisti dell’Intifada a colpi di sassi, ben più estesa del modello palestinese, sono spesso irrispettosi dei suoi stessi ordini di non usare violenza.

Sotto gli slogan del “Quit India movement” – “India vattene” – sfilano i volti puliti e sbarbati di migliaia di ragazzi e ragazzini delle scuole medie e superiori, spesso delle elementari, Per la prima volta così massicciamente in piazza scendono anche le loro sorelle e madri, pronte a inseguire coi veli lilla e celeste svolazzanti le camionette dei soldati che trasportano figli e fratelli verso una lurida cella. Sono casalinghe e studentesse in colorate salwar-kameez, che da sempre mostrano a casa e a scuola il loro volto a differenza delle sorelle di fede afghane. Fanno parte perlopiù dell’esercito di parenti e conoscenti di quanti, 125mila in meno di 20 anni, hanno perso la loro vita per la causa della separazione: morti a un posto di confine con un fucile in mano, oppure lungo una strada di Srinagar e nei villaggi delle precedenti rivolte degli anni ’90 e del 2008, domate dopo massacri di 100, 150 persone al giorno. A preoccupare le donne c’è il fatto che molti muoiono in carcere sotto tortura, e molti altri ancora – sarebbero 30mila e tutti giovani i desaparecidos della Valle – spariscono senza lasciare traccia. A consolarle non serve sperare che i loro figli siano finiti ad allungare oltreconfine l’esercito dei fondamentalisti islamici.

Fedeli alla tradizione dei santi e pacifici mistici Sufi dell’Islam, i kashmiri non hanno la stessa visione estrema delle leggi Coraniche, né il desiderio della vendetta di sangue. Molti cittadini di Srinagar – nessuno sa quanti – sono anche in disaccordo con le serrate e le sassaiole, “che non porteranno da nessuna parte”, come sentiamo dire a bordo di uno dei rari taxi collettivi in servizio. Eppure tutto è fermo, paralizzato dalla paura di un nuovo scontro, di un altro giorno di coprifuoco, mentre corrono le voci di un aiuto esterno alla rivolta da parte del Pakistan. Finché si spara a Srinagar – ci dice un ufficiale dell’esercito indiano – Islamabad può rifiutarsi di assecondare la richiesta Usa e del governo di Delhi per un suo intervento diretto in Afghanistan. “Ma un fatto è certo – commenta - dove non sono riusciti gli attentati del terrorismo, puntano ora i sassi dei ragazzi di Srinagar”. Sebbene la perdita del Kashmir comporterebbe la fine del controllo assoluto sulle sorgenti dei fiumi nei ghiacciai himalayani contesi, l’opinione dell’ufficiale non è condivisa da tutti.

“Bisogna interrompere le atrocità contro i kashmiri – ha detto tra gli altri un influente leader comunista che è stato alleato del Congresso di Delhi – “la loro è una legittima rivendicazione di autonomia”. A dilatare verso tempi indefiniti la fine di questa ennesima tragica rivolta della Valle, è l’impressionante quantità di vittime civili che alimentano col loro “martirio” la rabbia e il desiderio della popolazione di veder scomparire presto le pattuglie e gli odiati bunker, disseminati in 200 incroci della sola capitale. A ogni funerale una marcia e una sassaiola, una nuova vittima, poi un nuovo funerale che finirà nel sangue.

Srinagar non è isolata dal mondo. Ha un buon aeroporto ben collegato con New Delhi e altre città, linee Internet con facebook e Youtoube che trasmettono quotidiane immagini di feriti e morti, antenne dei cellulari disseminate ovunque. Eppure ancora escono ovattate – oltre che distorte dall’etichetta di “terroristi” affibbiata ai giovani kashmiri - le notizie di ciò che sta avvenendo giorno per giorno dall’11 giugno. E’ la data della goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza di tanti ragazzi e adolescenti, decisi a mettere a repentaglio i loro studi, i loro affetti, pur di tentare l’ennesima, forse ancora una volta inutile, spallata al regime che li apprime.

E’ successo quando un 17enne è stato colpito alla testa da un candelotto dei militari sparato a distanza ravvicinata durante una manifestazione anti-indiana nello stadio di Rajouri Kadal. Tufail Ahmad, morto col cranio fracassato, era figlio unico e studiava brillantemente, ma quel giorno tornava da una lezione privata al momento sbagliato e nel posto sbagliato. Presto la rabbia per l’”errore” dei soldati si è sommata a quella già manifestata dalla piazza per altre tre vittime innocenti, semplici trasportatori uccisi a maggio lungo il confine pachistano da una pattuglia di “cacciatori di terroristi” con l’uniforme dell’esercito, in cerca di premi e aumenti di stipendio offerti dal governo. Tufail non partecipava alla furiosa sassaiola cominciata senza preavviso in città per protestare contro l’incidente sul confine, e la sua innocenza è presto diventata la bandiera della rivolta, frutto di un malcontento che cova sotto la cenere da molte generazioni. Non solo quelle nate e cresciute dopo i massacri degli anni ’90, ma tutte le precedenti, dalla partizione del 1947, che ha diviso e schiacciato il Kashmir tra India e Pakistan, fino ai lontani martiri del regime dei Maharaja Dogra.

Ogni studente delle elementari sa che quei principi hindu acquistarono la Valle dagli inglesi a metà dell’800 pagandola poche migliaia di rupie più qualche capra e cavallo, prima di cederla 63anni fa all’India in cambio della difesa dagli invasori musulmani, giunti in massa dal neonato Stato islamico. Fatto è che la chiusura di negozi, banche, uffici e scuole a nord e a sud di Srinagar sta mettendo in ginocchio l’intera Valle, il Paradiso in terra che l’India non vuole assolutamente perdere, al costo di spese militari enormi e di una crescente impopolarità tra gran parte della popolazione musulmana. Quando giungiamo in città guidati da un autista che ha maledetto ognuno delle centinaia di camion militari indiani incrociati sulle montagne himalayane, ogni grande incrocio – desolantemente semideserto - è presidiato da soldati armati di tutto punto:

Lal Chok, la moschea di Jama Majid, e poi i villaggi di Sopore, Baramulla, Bandipore, Pulwana a nord, Kupwara, Kulgam, Anantnag a sud. Una presenza sproporzionata – 700mila uomini, un militare ogni cinque abitanti della Valle - e soprattutto condizionata dall’assoluta mancanza di addestramento a combattere un’Intifada urbana di queste proporzioni. Davanti non hanno più i terroristi armati di kalashinkov nascosti tra le rocce lungo la Linea di controllo al confine col Pakistan, scesi da 20mila a poche centinaia, ma spesso anche bambini di otto, nove anni.

Era l’età di Sameer Ahmad, picchiato a morte dai militari a Batamaloo mentre andava a comprare il latte, seguito qualche settimana dopo da Irshad, un undicenne di Anantnag, colpito da un proiettile di gomma mentre assisteva alle proteste. In entrambi i casi hanno agito i giganteschi soldati delle truppe speciali del Central reserve police force, il famigerato CRPF, autorizzati all’uso della forza da una legge speciale che concede all’esercito pieni poteri di vita e di morte. Di nessuna autorità gode invece il governo locale del quarantenne Omar Abdullah, considerato un fantoccio di Delhi come i suoi predecessori. Eppure quando morì suo nonno Sheik Abdullah, il leggendario nemico degli ultimi maharaja hindu, fu accompagnato al cimitero da due milioni di kashmiri in lacrime. Oggi invece la sua tomba è forse l’unica al mondo ad essere protetta da nugoli di militari per paura di una dissacrazione. Per i giovani di oggi Sheik paga l’errore di essersi fidato del suo amico premier indiano Nehru che promise un referendum sull’autodeterminazione mai avvenuto. Ma nemmeno Gesù Cristo – che diversi storici dicono sia sepolto proprio a Srinagar – se la sentirebbe oggi di dire: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.