Pubblicato nel 1977 come opera prima, questo libro appartiene alla specie, oggi rarissima, dei libri che provocano una sorta di innamoramento. La Patagonia di Chatwin diventa, per chiunque si appassioni a questo libro, un luogo che mancava alla propria geografia personale e di cui avvertiva segretamente il bisogno.
RISVOLTO «Patagonia» dicevano Coleridge e Melville, per significare qualcosa di estremo. «Non c’è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza» cantava Cendrars agli inizi di questo secolo. Dopo l’ultima guerra, alcuni ragazzi inglesi, fra cui l’autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano l’unico luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore. Li trovò entrambi – e insieme scoprì ancora una volta l’incanto del viaggiare, quell’incanto che è così facile disperdere, da quando ogni luogo del mondo è innanzitutto il pretesto per un inclusive tour. Eppure, eccolo di nuovo: l’inesauribile richiamo, il vagabondo trasalire di un’ombra – il viaggiatore – fra scene sempre mutevoli. E nulla si rivelerà così mutevole come la Patagonia, che si presenta come un deserto: «nessun suono tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca». All’interno di questa natura, che ha l’astrattezza e l’irrealtà di ciò che è troppo reale, da sempre disabituata all’uomo, Chatwin incontrerà un arcipelago di vite e di casi molto più sorprendente di quel che ogni esotismo permetta di pensare. Questa terra eccentrica per eccellenza è un perfetto ricettacolo per l’allucinazione, la solitudine e l’esilio. Qui i coloni gallesi versano il tè fra i ninnoli; qui circolano folli, che si trasmettono il titolo di re degli Araucani o coltivano la memoria di Luigi II di Baviera; qui si incontrano ancora elusivi ricordi di Butch Cassidy e Sundance Kid; qui si respira l’aria dei grandi naufragi; qui esuli boeri, lituani, scozzesi, russi, tedeschi vaneggiano sulle loro patrie perdute; qui Darwin incontrò aborigeni dal linguaggio sottile, e li trovò così «abietti» da dubitare che appartenessero alla sua stessa specie; qui si contemplano unicorni dipinti nelle caverne; qui sopravvive qualcuno che vuol far dimenticare un atroce passato. Come un nuovo W.H. Hudson, devoto solo al «dio dei viandanti», Chatwin ci racconta le sue molte tappe: fra baracche di lamiera, assurdi chalets, finti castelli, vaste fattorie. E ogni tappa è una miniatura di romanzo. Alla fine, la Patagonia sarà per noi pullulante di fantasmi, che si muovono sul fondo della «calma primitiva» del deserto, nella quale Hudson credeva di riconoscere «forse la stessa cosa della Pace di Dio».
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Colpa di un esotico fungo cinese, come personalmente descrisse la causa della sua prematura scomparsa, o troppe frequentazioni quando si aggirava per la brughiera avvolto in un mantello, come racconta la moglie, Chatwin ci lascia a quarantotto anni. Scrittore e viaggiatore britannico, Bruce Chatwin è diventato celebre per i suoi racconti di viaggio. Dopo aver compiuto gli studi presso il Marlborough College, nello Wiltshire, inizia a lavorare presso la prestigiosa casa d’aste londinese Sotheby’s, diventando in poco tempo uno dei più competenti esperti di arte impressionista. A ventisei anni abbandona il lavoro e s’iscrive all’Università di Edimburgo per approfondire la sua passione per l’archeologia. Dopo gli studi inizia a viaggiare per lavoro: prima in Afghanistan, poi in Africa, dove sviluppa un forte interesse per i nomadi e il loro distacco dai possedimenti personali. Nel 1973 viene assunto dal «Sunday Times Magazine» come consulente per temi di arte e architettura. Questo nuovo impiego gli permette di continuare a viaggiare e a lavorare come inviato dall’estero. Dopo aver vissuto sei mesi in Patagonia scrive il libro che consacra la sua fama di scrittore di viaggi, In Patagonia (1977). Verso la fine degli anni Ottanta Chatwin si ammala di AIDS, nascondendolo fino alla fine. Passa gli ultimi giorni della sua vita, con la moglie, nel sud della Francia, morendo a quarantotto anni. |