Guerra è pace
"Immaginate una notte buia, senza neanche una luce a parte le stelle. E anche quelle si vedono a fatica, in mezzo a squarci di nuvole". Sono parole di Mahasveta Devi che, in una delle sue storie dedicate ai ragazzi adivasi, così descrive il momento che precede un'ingiustizia, un oscurarsi della natura o del tempo o della ragione che precede certi interventi dell'uomo, interventi brutali, miopi o addirittura ciechi, il cui obiettivo è il vantaggio di pochi, l'oppressione, la povertà di moltissimi. Leggendo questi saggi di Arundhati Roy, in parte già noti al pubblico italiano (Un mondo senza immaginazione, sui test nucleari indiani del 1998, e Per il bene comune, sul progettato sistema di dighe sul fiume Narmada, 1999, erano già stati raccolti in volume, sempre da Guanda, con il titolo La fine delle illusioni; mentre i due saggi scritti dopo l'11 settembre, L'algebra della giustizia infinita e Guerra è pace sono usciti su "Internazionale" nell'autunno 2001), si ha costantemente la sensazione di una scrittura che tenta di far luce, di opporsi alle tenebre che si addensano sull'esistenza degli esseri umani.
E direi che l'autrice del bestseller mondiale Il Dio delle piccole cose dimostra di avere pieno titolo a raccogliere il testimone impugnato per decenni dalla "devi" della letteratura indiana. Come scrittrice e come attivista, tanto più che proprio in questi giorni Arundhati Roy, accusata di oltraggio alla Corte per aver partecipato a pacifici presidi di protesta contro la sentenza sulla diga di Sardar Samovar lungo quel fiume bellissimo che è la Narmada, si è vista condannare a tre mesi di reclusione - scontati con una notte di carcere e il pagamento di una consistente pena pecuniaria. Da quella ridicola accusa Roy ha voluto difendersi con una splendida arringa contenuta in questo volume, Sui diritti dei cittadini a esprimere il proprio dissenso. In essa Roy pone una questione cruciale, peraltro al centro della riflessione di quanti, dopo Seattle, Praga, Genova, lungo la Narmada o a Porto Alegre, hanno deciso di contestare, a proprio nome, un processo di globalizzazione che, come le dighe, appare economicamente insostenibile, ecologicamente distruttivo e profondamente antidemocratico: "Come libera cittadina indiana ho il diritto di partecipare a qualsiasi dimostrazione o marcia di protesta pacifiche (...). Come scrittrice ho il pieno diritto di usare il mio punto di vista, tutte le mie competenze e i miei talenti, oltre a tutte le cifre e i dati di cui dispongo per convincere le persone ad adottare il mio punto di vista".
Il tema dell'impegno dello scrittore, e più in generale dell'artista, è uno dei fili conduttori di questi saggi. Ove l'argomentazione, politicamente forte e quasi sempre convincente, è sostenuta dalla scrittura di chi, sentendo "il linguaggio come la pelle dei suoi pensieri" e pensandosi innanzitutto come cittadina del suo paese e del mondo, opta per la prosa saggistica - "per uno scrittore di romanzi non c'è niente di più umiliante che ripetere argomentazioni già sostenute nel tempo da altre persone (...), sono disposta a strisciare, a umiliarmi perché in queste circostanze il silenzio sarebbe imperdonabile" - senza rinunciare alla poesia e all'ironia - "essere scrittrice, presumibilmente 'famosa', in un paese dove ci sono milioni di analfabeti è un onore piuttosto dubbio" - per farne un'arma pacifica da mettere nelle mani di tutti. A proposito della sua decisione di affiancare nella loro lotta gli abitanti dei villaggi minacciati dai progetti di sbarramento della Narmada, Roy scrive: "L'istinto mi indusse a mettere da parte Joyce e Nabokov e a rimandare la lettura del librone di De Lillo per dedicarmi a rapporti di bonifica e irrigazione, diari, libri e documentari sulle dighe", quindi si inoltra tra le cifre relative a investimenti, costi e profitti, raccolti, andamento demografico e produttivo; sciorina metri cubi e megawatt, facendo di tutto ciò materia narrativa. Documento come racconto, racconto come documento, dedicato "alle marmotte e ai topi campagnoli, e a tutto quello che sulla terra viene minacciato e terrorizzato dalla razza umana".
I meccanismi del mercato culturale, le imposizioni di un sistema di informazione che tendono a occupare l'immaginario del singolo omologandolo fino alla sua cancellazione, sono l'oggetto del testo, finora inedito e molto interessante, di una conferenza tenuta nel febbraio 2001 allo Hampshire College di Amherst, Massachusetts: Le signore sono tanto emotive, allora... dovremmo lasciar decidere agli esperti? Titolo dagli echi woolfiani per un saggio che sarebbe piaciuto alla poeta di Amherst, colei che scriveva: "La Speranza è quella cosa piumata / che si viene a posare sull'anima"). Roy smentisce con forza i luoghi comuni sulla libertà dell'artista, tenta, a mio avviso con successo, di saldare una dicotomia che le viene imposta dall'esterno: "Mi sono chiesta perché chi ha scritto Il Dio delle piccole cose sia chiamata 'scrittrice', e chi ha scritto i saggi politici sia chiamata 'attivista' (...). La mia tesi è che mi abbiano appioppato questo doppio appellativo, questa orrida etichetta professionale, perché nei miei saggi, che vertono su argomenti molto controversi, scelgo da che parte stare. Prendo posizione". Scelta stimolante se non altro per quei lettori e lettrici che condividono il bisogno della scrittrice di sentirsi cittadini, a buon diritto pensanti e schierati, e come lei desiderosi di mantenere al linguaggio il ruolo che gli spetta, di veicolo di comunicazione e bellezza, rifiutandone il massacro disinvoltamente praticato da molti organi di controllo e di governo.
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"La polemica di Arundhati Roy Eimportante e necessaria... dobbiamo esserle grati per il suo coraggio e il suo talento." (Salman Rushdie)
L'autrice diventa polemista, ma l'interesse del lettore dovrebbe concentrarsi non tanto sul saggio a riguardo dell'11 settembre ma sulle preziose informazioni che Roy fornisce sul problema di Narmada. 2003 anno dell'acqua e Roy fornisce materiale per un'ampia riflessione. Il saggio "Per il bene comune" a riguardo della diga sulla Narmada era giEstato pubblicato all'interno di "La fine delle illusioni edito da Guanda e poi da Tea.
«Amare. Essere amati. Non dimenticare mai la propria insignificanza. Non assuefarsi mai all’indicibile violenza e alla grossolana disuguaglianza della vita attorno a te. Cercare la gioia nei posti piEtristi. Inseguire la bellezza fin dentro la sua tana. Non semplificare mai le cose complicate e non complicare mai le cose semplici. Rispettare la forza, mai il potere. E, soprattutto, guardare. Cercare di capire. Non distogliere mai lo sguardo. E mai, mai dimenticare.» Sono queste le parole che Arundhati Roy dedica a una sua amica e che riassumono perfettamente lo spirito, la sensibilitE l’intelligenza critica e il dolore del cuore che attraversano le pagine di Guerra Epace. Pagine dedicate agli ultimi eventi che hanno sconvolto il mondo intero: l’attacco dellE1 settembre alle Twin Towers di New York e la risposta Americana del 7 ottobre che «ha oscurato l’Afghanistan». Ma la sua voce forte, polemica, piena di rabbia ma anche di compassione per le vittime, di qualunque bandiera e religione, si leva anche per condannare in modo lucido e documentato i rischi della globalizzazione dell’economia mondiale; della privatizzazione delle risorse energetiche; del divario tra Oriente e Occidente; della guerra nucleare che avrEun solo nemico, la terra stessa i cui elementi El’aria, la terra, il vento e l’acqua E«si volgeranno tutti contro di noi. La loro collera sarEtremenda». Infine Arundhati Roy (che in questi anni ha svolto un’intensa attivitEpolitica, per la quale rischia una pesante condanna da parte delle autoritEindiane) ci esorta a riprendere in mano il nostro futuro, a non delegarlo agli esperti, ricordandoci che «tutti siamo coinvolti perchEesseri umani.» |