Ebano
"Gli Africani - spiega l'autore - sono come l'ebano, albero forte e maestoso, da cui si ricava legno resistente, ma anche estremamente malleabile, facile da scolpire e da lavorare. L'ebano č il simbolo che racchiude la forza di questa gente, la quale sa adeguarsi alle situazioni pių diverse, pur rimanendo profondamente radicata alle proprie tradizioni, alla propria storia millenaria". Attraverso l'esperienza personale Kapuscinski riesce a cogliere l'essenza della vita degli africani, e la offre al lettore, senza voler scimmiottare la letteratura: "L'informazione - sostiene - č come il cielo sereno o come l'atmosfera in un mercato: deve trasmettere sensazioni". Viaggiatore curioso e acuto, Kapuscinsky si cala nel continente africano e se ne lascia sommergere, rifuggendo tappe obbligate, stereotipi e luoghi comuni. Abita nelle case dei sobborghi pių poveri, brulicanti di scarafaggi e schiacciate dal caldo; si ammala di malaria cerebrale; rischia la morte per mano di un guerrigliero; ha paura, si dispera. Ma non perde lo sguardo lucido e penetrante del reporter e non rinuncia all'affabulazione del grande narratore: che parlino di Amin Dada o della tragedia del Ruanda, di una giornata in un villaggio o della cittā di Lalibela, tassello dopo tassello le pagine di "Ebano" compongono il vivido mosaico di un mondo carico di inquietudine. ============================
Kapuscinski, Ryszard, Il cinico non č adatto a questo mestiere, e/o, 2000 Kapuscinski, Ryszard, Ebano, Feltrinelli , 2000 recensioni di Piccoli, G. L'Indice del 2000, n. 07
Quando mi č arrivato a casa il libro con le conversazioni con Kapusīcinīski "sul buon giornalismo", l'ho guardato e messo da parte in attesa di terminare la lettura di Ebano. Qualche giorno dopo, sfogliando un quotidiano, ho visto una recensione sul libro della e/o e ho creduto di scoprire un grossolano errore di stampa, proprio nel titolo del libro: "Il cinico non č adatto a questo mestiere". Hanno aggiunto un "non", ho pensato. Ma il libro in vista sullo scaffale č pronto a smentirmi. Il "non" l'avevo eliminato io. Com'č possibile un abbaglio del genere? Sarā che Kapusīcinīski non frequenta le redazioni dei giornali occidentali, e italiani? Sarā che io sono stato cosė sfortunato da non trovarvi nessuno che gli assomigli almeno un po'? Di inviati speciali ne ho incrociati vari, da Beirut a Gerusalemme, da Managua a Bogotā. I migliori, e anche i pių famosi, mi sono apparsi prigionieri del mito che si sono costruiti girando come trottole per il mondo. Molti altri, prigionieri delle hall dei grandi alberghi, dove ritrovano i loro simili, dei giorni scanditi dai cocktail ufficiali, talvolta persino delle fatture da raccogliere per le note spese. O dei fuoristrada noleggiati, e guidati da un autista che talvolta si rivela l'unico "umile" da intervistare, in mezzo a tanta gente che conta e decide. Di inviati come Ryszard Kapusīcinīski, invece, non ne ho mai visti e conosciuti. Uno che ha cominciato la sua carriera giornalistica coprendo da solo per la stampa polacca l'intera Africa della fine degli anni cinquanta, sulla soglia dell'indipendenza. Che rincorreva senza soldi guerre, rivoluzioni e colpi di Stato. E che amava "sparire tra la gente", riuscendo, lui bianco slavato in mezzo ai neri, a farsi accettare. "Se mi avessero individuato come straniero, come diverso, la gente mi avrebbe magari rivolto la parola, ma certo non si sarebbe lasciata andare con la stessa libertā a commenti e osservazioni sincere", racconta Kapusīcinīski. La sua diversitā, prima di emergere dalla scrittura, nasce dalle scelte di vita. Dai disagi che si procura, o dai quali non scappa, Kapusīcinīski trae fotografie della realtā, altrimenti inafferrabili, arrivando al generale e alla visione d'insieme dai particolari di un personale che non č mai noioso. Condivide la vita dei poveri perché sono i poveri, che formano la gran parte dell'umanitā, a interessarlo. "Non potrā mai fare il corrispondente chi ha paura della mosca tse-tse, del cobra nero, degli elefanti, dei cannibali... chi trema al solo pensiero dell'ameba e delle malattie veneree, o dell'idea di essere derubato e picchiato, chi mette da parte i dollari per farsi una casetta in patria, chi non sa dormire in una casetta africana e chi disprezza la gente di cui scrive", afferma categoricamente Kapusīcinīski. Ed č quanto dimostra in tutte le pagine di Ebano, una fotografia dell'Africa, anzi della sua Africa di giornalista polacco. Racconti mirabili di colpi di Stato visti dal basso, in Kenya, Tanganika, Zanzibar e Uganda, ma anche diari di viaggi, scomodi, avventurosi e infiniti tra le capitali africane, da Accra a Kampala, da Lagos a Dar es Salaam. E poi testimonianze di malattie sofferte, dalla malaria cerebrale alla tubercolosi. E agili pagine di storia, raccontata con maestria. E spiegazioni chiare e godibili delle leggende e dei miti. Sfogliando Ebano si scoprono le prioritā del viaggiatore in carne e ossa. Ad esempio, gli insetti che rendono cosė difficile qualunque immersione dai tropici in gių. E gli odori che assalgono chiunque appena scende dalla scaletta dell'aereo, e i rumori. E la luce, "la prima cosa che colpisce". Solo vivendo con e come gli africani, condividendone disagi e allegrie, si riesce a spiegare la loro vita. E a capire anche quella che sembra un'apatica rassegnazione. "L'europeo e l'africano hanno un'idea del tempo completamente diversa, lo concepiscono e vi si rapportano in modo opposto", scrive Kapusīcinīski. Per l'europeo il tempo č autonomo e assoluto, un'entitā con la quale fare continuamente i conti in un conflitto perduto in partenza. Per l'africano il tempo č un'entitā inerte, passiva e condizionabile. Da qui la sua capacitā di immobilizzarsi, di farsi terra, di apparire incurante alle catastrofi come alle mosche. E di attendere: il destino, un aiuto o pių banalmente la partenza del bus. "Che succede intanto nella testa di queste persone? Lo ignoro. Pensano? Sognano? Ricordano? Fanno progetti? Meditano? Viaggiano nell'aldilā? Difficile dirlo" ammette Kapusīcinīski. A proposito di Ebano, Kapusīcinīski sostiene che il libro non parla dell'Africa, ma di alcune persone che vi ha incontrato: "L'Africa č un continente troppo grande per poterlo descrivere. Č un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. Č solo per semplificare e per pura comoditā che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtā l'Africa non esiste". Nonostante questa consapevolezza impietosa, Ebano fa capire pių dell'Africa di qualunque altro libro, perché traSuda immediatezza, sinceritā, capacitā di indagine. E soprattutto umiltā e rispetto, che sono l'esatto contrario del cinismo. Certo tutti i direttori di giornale vorrebbero Kapusīcinīski tra i collaboratori delle pagine della cultura, ma quanti digerirebbero un tipo del genere agli Esteri, un giornalista che non sa stare ai tempi dell'informazione e soprattutto che stonerebbe nei cori su spartito durante i grandi eventi: elezioni e catastrofi, rivoluzioni e guerre. Soprattutto guerre, visto che, come sostiene un proverbio tedesco (Komm der Krieg ins Land / Dann gibt's Lugenwie Sand), quando in un paese arriva la guerra, arrivano a valanga le bugie. Che avrebbe fatto Kapusīcinīski, o il giornalista-modello che lui dipinge, durante la guerra del Golfo, quando tutti i tg e giornali presero per buoni dei veri e propri falsi? Come la favola del cormorano morente, ricoperto del petrolio con cui Saddam Hussein aveva inondato il Golfo Persico, e che dopo qualche settimana si rivelō un povero uccello prelevato da uno zoo di Atlanta e riempito di pece nera. O quella, tragica, della "fanciulla kuwaitiana sfuggita allo sterminio", che raccontō che i soldati irakeni avevano staccato la corrente negli ospedali di Kuwait City per uccidere i neonati, e che si scoprė essere la figlia dell'ambasciatore kuwaitiano presso l'Onu, assente da anni dal suo paese. Avrebbe dubitato, protestato o si sarebbe unito al coro su spartito della maggiore agenzia statunitense di pubbliche relazioni, la Hill & Knowlton, responsabile di analoghi episodi nella guerra dei Balcani dell'anno scorso? Pochi cantano fuori dal coro. Uno di questi, quasi l'eccezione che conferma la regola, Giulietto Chiesa, il corrispondente della "Stampa" da Mosca, sostiene che "non si deve mai, proprio mai, credere alla prima versione dei fatti presentata dal Potere, quale che esso sia. Di solito č falsa". Ma gli altri, quasi tutti gli altri, sono pronti ad abbandonare coscienza, etica professionale e spesso anche la ragione e la faccia, per farsi complici delle grandi bugie, delle censure e delle montature. Per codismo, paura, pigrizia o per arruolamento convinto ai poteri forti. E qualcuno ha anche il coraggio di difendere le bugie. Il 3 novembre 1999 l'inviato della "Repubblica", Guido Rampoldi, in un'inchiesta del suo giornale intitolata Kosovo, il mistero delle fosse comuni (che non si trovavano), confessava: "Le allusioni a Milosevic-Hitler, un gingillarsi disinvolto con la parola genocidio, le foto di fosse comuni scattate dai satelliti che corrispondevano a scavi qualunque, gli annunci di massacri mai avvenuti: tutto questo non corrispondeva alla realtā, anche se spesso vi si avvicinava. Come intuivamo anche durante la guerra". Nonostante le intuizioni, perō, lui e il suo giornale, e la gran parte dei giornali italiani, continuarono a raccontare bugie. Perché? Rampoldi lo spiegava con grande candore: "possiamo immaginare con quale spirito le societā occidentali avrebbero accettato il conflitto, se i governi avessero raccontato la veritā". Non c'č da vergognarsi? Dispiace dirlo, caro Kapusīcinīski, ma, per quello che vediamo ogni giorno in questa parte del mondo, solo "il cinico č adatto a questo mestiere".
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