La recensione de L'Indice
Guardare, ascoltare, riversare storie e racconti in quaderni a quadretti, immergersi in un mondo di guaritori e indovini del Mali per cercare di carpirne il segreto e le capacità terapeutiche per la cura della malattia mentale. È questo il "bosco" interiore in cui si addentra guardingo l'occhio antropologico di Barbara Fiore, chiamata a decifrare e rendere accessibile la percezione locale del disagio mentale nell'ambito di un programma di sostegno alla medicina tradizionale svolto tra i dogon dell'altopiano di Bandiagara voluto dal governo del Mali e appoggiato dall'Italia alla fine degli anni ottanta. Di questo programma Barbara Fiore ci restituisce dopo molti anni le voci e i racconti ("Il mio tempo, allora, trascorreva nelle parole: per ore, giorni, settimane, mesi io ascoltavo; ascoltare è sempre stato il senso del mio stare lì") insieme ai gesti, gli odori, i colori, l'estenuarsi di medici e pazienti di fronte al jedi, il vento della follia che spazza menti e umori e spiazza le capacità terapeutiche della medicina occidentale, per il suo frammentarsi in sintomi e cause diverse che solo l'occhio interno di guaritori, indovini, interpreti di sogni e erboristi locali riesce a ricomporre e "spiegare".
E poiché il mondo dogon dell'altopiano e delle falesie di Bandiagara è da sempre un mondo di incroci e di mescolanze, di sincretismi e convivenze tra popolazioni diverse (hausa, bambara, fulbe, toucouleur, mauri, songhai) dove convivono marabout musulmani, erboristi e guaritori, interpreti di sogni e sacerdoti di culti animisti, le storie raccolte dall'autrice dei tanti "mali causati da esseri sovrannaturali, dal gesto di una strega, dal mulinello di vento che penetra nel corpo e lo abita come una bolla migrante" restituiscono un senso alla perdita di appartenenza, alle ansie, alle allucinazioni, allo sragionare di persone coinvolte in amori e delusioni, mancanze e sdoppiamenti, alleanze e conflitti interni, che compongono il complesso mondo della malattia da tutti localmente riconosciuta e per ciò stesso più narrata che spiegata. Di qui lo "stordito stupore" e il senso di incanto e di sostanziale intraducibilità del male che promana dalle pagine di questo prezioso volumetto di aperture e incursioni nel mondo della sofferenza in cui l'autrice si sofferma con discrezione e leggerezza, attenta ai particolari minuti di uno sguardo che "prende", un colore che "spiega", una folata di polvere e vento che circonda e denota il complesso universo del male: "L'ignoto. Ignoti i volti, le lingue, le vie, gli interni delle case, gli odori, i segnali, i nomi delle cose, ignoto l'universo della malattia".
In questa opera di decrittazione e di inquadramento della grammatica comportamentale dei malati mentali tra i dogon, l'autrice è aiutata da una straordinaria interprete e traduttrice di storie, suoni, e linguaggi del corpo e della mente, Hawa: "Hawa è la mia interprete, ma è soprattutto la mia guida (...) Ho subito capito che le storie sono i suoi quotidiani insegnamenti, che mi impartisce per introdurmi lentamente là dove mi devo muovere, farmi capire", l'unico modo di comunicare a chi è arrivato da fuori le assonanze di analisi e di sintomatologie, il "tentativo di trovare equivalenze e di tradurre quei mali nei nostri". Perché la malattia può risiedere ovunque nel mondo dogon, nelle rocce, tra gli alberi, nell'acqua, può essere trasmessa da esseri sovrannaturali, si nasconde nelle pieghe della natura o del tempo. La malattia non ha fretta, sta guardinga, in attesa di colpire, nel territorio fluido che distingue il mondo ordinato, lÆandà, "il villaggio abitato, recintato da muri, circondato dai campi coltivati, segnato da sentieri tracciati", e lo spazio aperto (ogulù) "che comincia là dove le costruzioni e i campi finiscono, il mondo di acque, alberi e rocce percorso dal vento, sorvolato da uccelli, territorio selvatico in cui agiscono forze incontrollabili". È in questo spazio ai margini tra il dentro e il fuori, tra l'abitato e il bosco, tra natura e cultura nel loro quotidiano sovrapporsi e contrastarsi, che ha luogo l'origine del male, del vento, i percorsi della follia che l'antropologa ha il compito ogni volta di tradurre in categorie decifrabili, confrontabili, curabili.
Il volume di Barbara Fiore, scritto in uno stile lieve e assorto, esprime tutta la difficoltà, e la sfida, di rintracciare in strutture mentali diverse dalle nostre il proprio demone interno, ritrovare nell'altro quell'altro da sé che è in noi stessi e che l'autrice cerca "di governare ma da cui sempre più chiaramente ero sopraffatta, trasportata", come in molti dei malati che osserva e di cui ascolta le storie, i racconti dolenti, le allucinate visioni e insieme gli scoppi di allegria e le mescolanze di gesti e di lingue. Barbara Fiore traccia il suo racconto di esperienza vissuta accanto e dentro la follia degli umani ricomponendo con lucida poesia quell'intreccio di suoni, di voci e di lingue diverse che "si mescolano, rimbalzano contro i muri, risuonano nelle cavità dei portici" come al mercato del venerdì di Bandiagara nel momento di massimo affollamento: "Nella luce del sole, nel caldo e nella polvere, "tutto si impasta generando un'unica martellante sensazione, come si fosse in preda a un'eccitazione straordinaria o a una straordinaria spossatezza". |