Una scrittura femminile azzurro pallido
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991) recensione di Baggiani, A., L'Indice 1991, n. 9
Ingannato dal titolo di sapore romantico - e dalla cattiva fama, immeritata, di un Werfel dalla penna troppo facile - non s'aspetti il lettore alcunché del genere. Siamo, sì, nella solita Mitteleuropa, nella solita Vienna, seconda patria dello scrittore praghese: ma nel 1936, in piena crisi, e ben altro si prepara. Appena compiuti i cinquant'anni, proprio quando comincia a sentirsi un "pupillo degli dèi", Leonida detto Leo, alto funzionario ministeriale, ricco per fortunato matrimonio, riceve una lettera vergata nell'inchiostro azzurro allora di moda tra le signore. Tanto basta a dar esca alla memoria: appena sposato, Leonida ha sedotto e abbandonato una giovane ebrea, bella e colta, per di più figlia di un suo antico benefattore - prima che un frac ereditato da un amico ebreo, morto suicida, gli aprisse insperate possibilità di carriera. E la minaccia, reale, di un figlio finora ignorato sconvolge la giornata del funzionario. Un'altalena di stati d'animo mutevoli lo accompagna passo passo, sottolineata da un tempo primaverile che lentamente si trasforma in gonfio e torpido autunno. Un incontro nel parco con un coetaneo meno fortunato rende Leonida consapevole della fragilità del destino e lo induce a difendere al ministero, in un momento di ribellione, la candidatura di un medico ebreo - ma solo in vista di un altro, possibile futuro. La decisione d'affrontare infine l'antica amica, unico suo grande amore, risolverà una volta per tutte i dubbi di Leonida, con un finale a sorpresa. Il perfetto meccanismo teatrale del romanzo e la sua sciolta scrittura, senza ridondanze, cui molto deve contribuire la traduzione, funziona a dovere. Ma questo non è un 'feuilleton' e, ovviamente, Leonida non è un eroe. Ed è poi davvero accaduto qualcosa? Costretto a riconoscere, fin dall'inizio, che "inquadrare un caso", "istruire un atto" sono i compiti di un buon funzionario, che deve talvolta sostituirsi a Dio, Leonida non sfugge alla regola. Inquisito, di fronte a un tribunale immaginario, il funzionario si censura, si confessa, si autodifende, in un continuo monologare che sembra dover fare i conti addirittura col Giudizio Universale, e deve quindi fondarsi su una spietata, anche se compiaciuta, autoanalisi. Ecco il vero processo, con un perfino eccessivo dispiegamento di psicologia: ma quello che viene fuori, alla fine, è il perfetto manuale dell'arrivista di buone maniere - non dimentichiamo il frac. Già una volta Werfel aveva con fortuna utilizzato, nel bellissimo "Anniversario della festa di maturità", l'espediente del processo, tema peraltro caro a tutto un filone della letteratura tedesca dell'epoca, come se questa forma giuridica borghese si prestasse in modo incomparabile alla difesa o negazione della verità (e ci vorrà poi Kafka a svelarne il vuoto). Messi a nudo i segreti dell'ascesa sociale, e delineato sullo sfondo il confortante conformismo e l'antisemitismo strisciante della grande Vienna, il tardo Werfel (il romanzo è del 1941) - che non ha mai, poveretto, fatto a meno delle utopie, inventandosene se mai di nuove ogni volta - non lascia alcuno spazio a nostalgie 'rétro' mitteleuropee. Ma sarà proprio un caso che Leonida, a teatro, s'addormenti di un sonno irrequieto davanti al primo atto del "Cavaliere della rosa?"
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