“In verità io vi dico, fratelli miei, anime in viaggio in questo penitente treno notturno, in verità vi dico che la croce ha l’aria stanca, molto stanca. In verità io credo fermamente che la poverina sia ormai sul punto di farsi cadere le braccia. Perché per lei, vecchia e scheggiata come una madre contadina, la competizione in questo mondo pieno di orgoglio e vanità sta diventando di giorno in giorno sempre più faticosa.”
Un treno attraversa il deserto di Atacama: il nulla candido che circonda il suo sferragliare è compensato dal rumoroso chiacchiericcio dei passeggeri e dal colore delle loro personalità. Narratore affascinante, abile nel creare il senso del “meraviglioso” proprio dell’affabulatore, Rivera Letelier srotola le vite dei suoi personaggi in un intreccio di dialoghi e rapporti che sul solitario treno si creano e si incrociano. Ed ecco i passeggeri: una chiromante generosa con la vecchia madre; Lorenzo, romantico fisarmonicista, minatore per amore; un nano chiacchierone che rincorre il circo che lo ha abbandonato; don Audito, vistosamente abbigliato e torturato dal mal di denti; due sorelle vestite di taffetà viola, accompagnate da una scatola di pulcini pigolanti; una coppia di languidi innamorati in fuga che sperano di far fortuna nella pampa; una donna vestita a lutto che legge e rilegge, tra le lacrime, la lettera che le annuncia la morte in miniera del figlio; uno strabico venditore di formaggi dalla sgradevole galanteria. Di tutti viene, con maggiore o minore ampiezza, descritta la storia; di tutti viene tracciata, con pochi e rapidi tratti, la personalità e, nei dialoghi, possiamo conoscerne il carattere e le aspettative. Fuori dal finestrino scorre il deserto abbagliante, e la diversa intensità della luce definisce l’ora del giorno. Ogni carrozza del treno è uno spicchio di umanità, c’è ad esempio un cieco che percorre i vagoni cantando boleri o una grassa meretrice della pampa, nota a tutti come “l’Ambulanza”, disponibile a offrire le sue generose grazie a chiunque. Lorenzo Anabalón percorre il treno alla ricerca di un bagno e il suo sguardo si ferma distratto su questi esseri variopinta. Su tutti e tutto domina un tanfo insostenibile e così il fisarmonicista cerca uno spazio aperto tra le carrozze: l’aria che sferza il viso mette in moto la fantAsia e nascono immagini dal passato. Così trascorrono giorni e notti; il treno, correndo nell’infinito spazio candido di salnitro, è come la vita, racchiude dolore, disperazione, speranza e pietà, e una povera umanità che a ogni fermata mostra le sue piaghe. Uomini e donne che, tra superstizioni e fede, cercano di medicare le ferite delle loro anime e porre un argine ai colpi della sorte. Rivera Letelier ci fa appassionare alle loro improbabili storie e ricostruisce, tra simboli e immagini, una misera epopea di vite che corrono su un treno d’infima classe. ” Recensione da alice.it
Le prime righe La locomotiva avanza fumante, ferrea, fragorosa attraverso il deserto più triste del mondo. Sasso dopo sasso, collina dopo collina, gola dopo gola, sbuffando come una mula assetata, avanza nera la locomotiva (solo la grande campana di bronzo splende sonnambula sotto il sole del mezzogiorno). Le carrozze polverose nel frattempo sferragliano una dura litania interminabile chiedendo che il calore non scoraggi la locomotiva, che i miraggi azzurrini in cui annegano le rotaie d’acciaio in lontananza non la ingannino con le loro lagune illusorie e, morta di sete, non si fermi come un animale schiattato nel bel mezzo di queste infinite distese desolate in cui, al suo passaggio, nessuna mucca lenta gira la testa per guardarla, nessun contadino raddrizza la schiena da angelo sottomesso per farle un cenno di saluto e l’olio di nessuna pioggia ineffabile unge il tormento della sua spina dorsale di ferro.
Lorenzo Anabalón, il fisarmonicista, appoggiato alla custodia del suo strumento, riconosce con nostalgia le amare lande nude. È il mezzogiorno della seconda giornata di viaggio e, mentre il treno scala un’interminabile collina di sabbia, il suo viso terroso tradisce già il cedimento della stanchezza. Il fazzoletto di seta che ha legato intorno al collo è tutto avvizzito a causa del Sudore e dell’untuosità della pelle. “Più avanti non si vedranno più neanche i cactus” dice la chiromante. Picchiettando distrattamente con le nocche sulla fisarmonica rossa, Lorenzo Anabalón annuisce continuando a guardare fuori dal finestrino. I pali del telegrafo, correndo intermittenti all’indietro, gli tagliano simmetricamente il paesaggio e i ricordi. “Perché in quelle distese spelacchiate non cresce neppure la zizzania” insiste la chiromante; ed è proprio questo, aggiunge, il motivo per cui le sue erbe medicinali sono così richieste da queste parti; nelle sue visite alle salnitriere ha addirittura conosciuto una donna che lavora come ambulante del sesso e che gliene ordina continuamente un sacco per prepararle alle colleghe, poiché afferma che le sue tisanine miracolose vanno bene sia per alleviare un dolore alle ovaie che per purificare i vetri dell’anima dal vapore viola della Malinconia.
© 2001 Ugo Guanda Editore
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