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Diventai giornalista perchè alle corse podistiche arrivavo sempre ultimo. Ero studente in un liceo di Firenze e mi ostinavo a partecipare a tutte le campestri che si tenevano alle Cascine. Non avevo alcun successo tranne quello di far ridere i miei compagni. Una volta, alla fine di una di quelle corse in cui ero davvero arrivato quando il pubblico stava già andando via, venne da me un signore sui trent'anni con un taccuino in mano e mi disse qualcosa come: «Sei studente? E allora, invece di partecipare alle corse, descrivile!» Avevo incontrato il primo giornalista della mia vita e, a sedici anni, avevo avuto la mia prima offerta di lavoro: cronista sportivo al Giornale del mattino. Cominciai con le corse a piedi, passai a quelle in bicicletta e poi alle partite di calcio. Le domeniche, invece che alle feste da ballo, le passai da allora andando a giro per i paesi e le cittadine della Toscana con una vecchia Vespa 98.
«Largo, c'è il giornalista», dicevano gli organizzatori quando mi presentavo. Ero un ragazzino e di sport me ne intendevo poco o nulla, ma quella qualifica mi dava lEper lE il diritto a un buon posto d'osservazione e il giorno dopo il diritto alla mia firma in testa a un articoletto con tanto di descrizioni e giudizi sulle pagine rosa del giornale della città. A quei due diritti - direi privilegi - son rimasto attaccato tutta la vita. Di questo straordinario mestiere - che poi è un modo di vivere - mi ha sempre affascinato il poter essere in prima fila là dove avvengono le cose, porre a chiunque le domande più impossibili, mettere il piede in tutte le porte, fare i conti in tasca ai potenti e poi poterne scrivere.
Quel «Largo, c'è i' giornalista», detto in vari modi, in varie lingue, mi ha aperto la strada a tanti luoghi attraverso i quali passava la storia, per lo più triste, del mio tempo: al fronte di guerre inutili, alle fosse di orribili massacri, a umilianti prigioni e negli ovattati palazzi di un qualche dittatore. Ogni volta col senso di essere «in missione», di essere gli occhi, gli orecchi, il naso, a volte anche il cuore di quelli - i lettori - che non potevano essere non solo i lettori.
Perché se è vero che, col giornale di ieri, oggi ci si avvolge il pesce, è altrettanto vero che il giornalismo è alla base della storia. Questa è una responsabilità che ho sempre sentito. Da qui l'attenzione ai dettagli, il tentativo di essere preciso nei fatti, nelle cifre, nei nomi. Se i tasselli di un particolare avvenimento di cui si è stati testimoni non sono esatti, come potrà esserlo il mosaico della storia che qualcuno poi ricostruirà con quei pezzi?
Non pretendo affatto che nelle pagine che seguono non ci siano errori; dico solo che ho cercato di evitarli e che non mi sono mai inventato nulla tanto per riempire un vuoto o imbellire un racconto. Alcuni articoli sono scritti a caldo, sotto pressione, con i minuti contati; altri sono il frutto di giorni, a volte settimane, di ricerca e ripensamenti. Alcuni sono pura cronaca, altri il tentativo di tracciare, usando la cronaca, il ritratto di un Paese o di una particolare situazione. Tutti hanno a che fare con l'Asia perché l'Asia è da più di 25 anni, la meta del mio vagabondare.
Perché l'Asia? Ci andai anzitutto perché era lontana, perché mi dava l'impressione di una terra in cui c'era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca dell'«altro», di tutto quello che non conoscevo, all'inseguimento d'idee, di uomini, di storie di cui avevo solo letto. Cominciai con lo studiare il cinese perché volevo vivere in Cina e vedere il maoismo con i miei occhi; m'improvvisai corrispondente di guerra perché quel che succedeva in Vietnam mi pareva riguardasse anche me. Il resto è venuto da sé compresa la scelta dei Paesi in cui vivere, ogni volta fatta in famiglia, in base a un interesse particolare e mai per convenienza o perché qualcuno me l'aveva imposta. |