Jamyang Norbu è ben conosciuto nell'ambiente della diaspora tibetana. presidente della Youth Tibetan Associazione si è distinto per le sue posizioni che timidamente riportavano il dissenso interno verso la politica del Dalai Lama giudicata troppo permisiva ed inconcludente. Norbu ci sorprende con un libro affascinante, gustoso e ricco di echi holmesiani (con un occhio a Kipling). Conosco la edizione inglese e fin dalle prime pagine nella mente mi risuonavano gli scritti di Doyle. "È lui, proprio lui!" esclamavo mentre la vicenda mi avviluppava come un serpente sulla preda. Purtroppo la parte finale lascia a desiderare, troppa fantasy alla "terzo occhio". Ed allora un "grazie" alla casa editrice Instar libri, che non si è limitata a scegliere un buon lavoro e a fornircelo nell'ottima traduzione di Grazia Maria Griffini, ma ha anche curato nei minimi particolari la presentazione del volume, dalla copertina "vecchio stile" al disegno del mandala (le immagini della Ruota della Vita che disegna anche il lama di Kim) che si va completando all'inizio di ogni capitolo, fino alla scelta del carattere Baskerville per comporre il testo.
"Per due anni viaggiai nel Tibet, pertanto, e mi interessò moltissimo la visita a Lhasa, dove trascorsi alcuni giorni in compagnia del Dalai-lama. Lei avrà forse letto la relazione delle esplorazioni di quei luoghi compiute da un norvegese di nome Sigerson, ma sono sicuro che non le sarà mai venuto in mente che attraverso quelle relazioni le giungevano notizie del suo amico." Arthur Conan Doyle La casa vuota
============== Giungemmo a Lhasa nel tardo pomeriggio del 17 maggio 1892. Superando l'ultima curva della strada dei pellegrini proveniente da Gyangtse, posammo gli occhi per la prima volta sul grande palazzo del Potala, sospeso sopra i verdeggianti campi d'orzo nella vallata del Kyichu (Fiume Felice). Il Potala fu costruito nell'anno dell'Uccello d'acqua (1645) dal quinto Dalai-lama, pare tuttavia che la struttura Centrale, il "Palazzo Rosso", esistesse già dal VII secolo, ai tempi degli antichi re tibetani. Il palazzo prende il nome dal Monte Potalaka nell'India meridionale, sacro a Siva. I buddisti credono però che la montagna sia sacra ad Avalokitesvara, il Buddha della Compassione, cioè il Dalai-lama nella sua forma divina. Il Potala sarebbe una costruzione eccezionale in qualsiasi grande metropoli del mondo ma, nelle lande deserte e inospitali del panorama tibetano, un tale monumento del genio e dell'energia umana assume proporzioni che incutono un timore reverenziale. Solo un bianco, Thomas Manning, l'aveva visto prima di noi, e nel nostro Dipartimento solo K.21 l'aveva visto prima di me. Ringraziai il Creatore per avermi concesso un simile privilegio. Intanto mi accorsi che la scena aveva lo stesso effetto sui miei compagni. Tsering, Kintup e gli altri smontarono di sella e si prostrarono al suolo in segno di riverenza. Perfino Gaffuru, di incrollabile fede musulmana, si commosse al punto da inchinarsi in un rispettoso salaam. Gli occhi del signor Holmes parvero colmarsi di tranquilla beatitudine mentre contemplavano il lontano Potala. La sua fronte severa, sempre aggrottata per il costante lavorio intellettuale, a poco a poco si rasserenò, e un dolce sorriso gli comparve sul volto. Era come se un tocco magico avesse cancellato ogni stanchezza del viaggio. Con il cuore leggero e una buona disposizione di spirito ci incamminammo verso la Città Santa. Seguendo la strada dei pellegrini, imboccammo un viale alberato, oltrepassammo i frutteti e gli orti che riforniscono i mercati di Lhasa, attraversammo parchi, campi e distese di stentata boscaglia. L'aria era tersa, deliziosamente priva della polvere che costituisce una vera piaga a Shigatse, e ciò grazie agli acquitrini e alla ricca rete di ruscelli e piccoli corsi d'acqua che rendono la vegetazione di Lhasa verdissima e lussureggiante. Benché i limpidi corsi d'acqua siano ricchi di grasse trote, non si può pescare, né si possono cacciare gli uccelli, perché si rischierebbe di sacrificare una vita umana trasmigrata. Le rive dei torrentelli erano una nuvola di boccioli di fiori selvatici, uno più sgargiante dell'altro: potentille profumate, margheritine rosse e azzurre, ranuncoli, primule e campanule. Più su nella vallata si intravedevano i campi d'orzo non ancora maturo, un mare che dilagava per chilometri. I mietitori avevano già cominciato a lavorare accompagnandosi con lieti canti; le donne portavano ghirlande di clematidi gialle. Superammo un piccolo corteo funebre. Il corpo del defunto - in posizione seduta - era avvolto in una coperta e probabilmente veniva portato in un cimitero fuori città, dove, secondo una macabra tradizione, sarebbe stato tagliato a pezzi e lasciato in pasto ai corvi e agli avvoltoi. Nei suoi resoconti di viaggio Manning descrive così quest'usanza: "Non mangiano uccelli, ma lasciano che gli uccelli mangino loro". Entrammo in città dalla famosa porta Occidentale, che in realtà è un largo stupa attraversato da un corridoio. Con noi c'era un gruppo di chiassosi pellegrini della provincia di Tsang, e grazie a loro la nostra piccola carovana non attirò l'attenzione. La guida, Tsering, ci condusse attraverso le strade affollate di pellegrini, monaci, accattoni, furfanti dall'aria spavalda e ricchi gentiluomini vestiti di seta. Signore con bizzarre acconciature transitavano in sella ai cavalli accompagnate dai servitori, mentre le loro sorelle meno fortunate andavano a piedi, talvolta portando sulla schiena barilotti di legno pieni d'acqua. Alcuni nomadi, vestiti da capo a piedi con pelli di pecora, si tenevano la mano per non smarrirsi. Donne del Khams, o Tibet Orientale, con i capelli raccolti in centootto trecce separate, facevano girare grosse ruote da preghiera secondo un rituale un po' meccanico ma pieno di devozione. Mercanti del Turkestan, del Bhutan, del Nepal, della Cina e della Mongolia esponevano sui loro banchi un vasto assortimento di articoli: tè, seta, pellicce, broccati, turchese, ambra, corallo, vini, frutta secca, ma anche lunghi aghi, filo, sapone, calicò, spezie e gingilli provenienti dai lontani bazar dell'India. Lhasa è una città sorprendentemente cosmopolita: commercianti e viaggiatori provengono non soltanto dai Paesi summenzionati; ci sono anche armeni, moscoviti e kashmiri. Dopo un'infinita serie di giravolte per strette viuzze e vicoli bui, ci trovammo di fronte un alto muro che circondava una dimora. Tsering bussò con il pugno sul massiccio portone di legno, gridando per richiamare l'attenzione. Un istante dopo il portone si aprì e, in sella alle nostre cavalcature, entrammo in un ampio cortile. Il portone si richiuse subito alle nostre spalle. Il signor Holmes e io fummo condotti in una bella sala, arredata secondo l'usanza tibetana con thangka, oggetti rituali, sontuosi tappeti e divani. Ci offrirono tè e biscotti Huntley & Palmer alla crema e cioccolato. Tsering andò ad avvisare del nostro arrivo il segretario del Dalai-lama. Ci raccomandò di non muoverci da lì fino al suo ritorno e di non uscire in strada. D'altronde eravamo entrambi stanchi; la spossatezza del viaggio cominciava a farsi sentire. Dopo un bagno caldo e una buona cena, servita da domestici silenziosi e capaci, ci ritirammo nelle nostre stanze. I letti erano morbidi, le lenzuola pulite e le trapunte calde. Dormimmo come i proverbiali ciocchi. Avevo appena terminato le abluzioni mattutine, cantato un breve inno brahmo-samagista (di natura teistica) e mi ero infilato in bocca il primo betel della giornata, quando Sherlock Holmes si presentò alla porta. - Ah! Vedo che siete già in piedi, Hurree - esordì allegramente. - È una vera fortuna, perché Tsering ha notizie per noi. Ci sta aspettando in sala da pranzo. Dopo colazione riesumammo i nostri travestimenti e seguimmo Tsering fino al Norbu Lingka (il Parco Prezioso), la residenza estiva del Dalai-lama, che si trova a circa tre chilometri dalla città. La lunga strada dritta era fiancheggiata su entrambi i lati da salici. In primavera e in estate il Dalai-lama vive e svolge le proprie attività in questo incantevole ritiro, dove giardini, laghi, serragli, padiglioni e accoglienti edifici sono più piacevoli e confortevoli dei freddi e tetri saloni del Potala. Il Parco Prezioso è circondato da alte mura. All'ingresso principale stavano di guardia alcuni soldati armati. Evidentemente eravamo attesi, perché apparvero subito gli staffieri che presero in consegna i nostri pony e ci condussero in fretta oltre i cancelli. Attraversando un delizioso boschetto di conifere e salici arrivammo al centro del parco, dove si trovano il giardino privato e la residenza del Dalai-lama, protetti da un muro giallo, con due cancelli sorvegliati da giganteschi monaci guerrieri. Varcata la soglia ci ritrovammo in un meraviglioso giardino, pieno di alberi da frutto e contorti cespugli di ginepro che ricordavano una stampa giapponese. Qua e là magnifici esemplari di feroci mastini tibetani tiravano sulle catene per liberarsi. Un ruscello luccicante correva tortuoso fra gli alberi, per poi buttarsi in un placido lago coperto di fiori di loto. Strani uccelli con il piumaggio esotico svolazzavano tra i rami. Notai perfino un pappagallo indiano di un bel verde vivo che, appollaiato su un pesco, salmodiava solennemente il mantra "Om Mani Padme Hum". Il palazzo vero e proprio non era grandioso, e ben si accordava al bucolico ambiente circostante. Alcuni monaci ci introdussero nel salone delle udienze, con splendidi tappeti sul pavimento e le pareti coperte di affreschi a soggetto religioso di squisita fattura. Il mobilio era invece di foggia occidentale, con comode poltrone e bassi tavoli in stile Reggenza. Un ricercato orologio di bronzo dorato ticchettava sommessamente su una credenza regina Anna accanto alla quale vedemmo un omino con la veste monastica color rosso vino e la testa nuda, rasata nel modo prescritto. Mentre si avvicinava per salutarci, notai che i suoi occhietti neri, con la tipica plica mongolica, erano assolutamente miopi. Portava occhiali tondi di fabbricazione cinese, di spesso cristallo. La sua voce, benché acuta, era forte e limpida. - Benvenuto in Tibet, signor Sherlock Holmes, e benvenuto anche voi, babuji. -
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"I travelled for two years in Tibet, therefore, and amused myself by visiting Lhasa and spending some days with the head Lama." So says Holmes to Watson in Conan Doyle's "The Adventure of the Empty House," which resurrected the detective after his apparent death at the hands of Moriarity at Reichenbach Falls. Ever since, Holmes enthusiasts have speculated as to what, exactly, the detective did in Tibet; this entertaining novel offers one scenario. In Norbu's vision, Holmes travels east to escape homicidal attacks by Moriarity's henchman. In India, he hooks up with Norbu's Watson figure (and narrator), Huree Chunder Mookherjee, a Bengali scholar and spy assigned to accompany Holmes, disguised as the Norwegian explorer Sigerson, to Tibet. The narrative features numerous neoclassic (Norbu is a Baker Street Irregular so perforce a Holmes expert) deductions by Holmes as he and Mookherjee travel to Lhasa, meet the young Dalai Lama and take on a Chinese-backed evil magician whose secret identity will surprise few. Norbu, who's a prominent supporter of today's Dalai Lama, uses the novel as a platform to castigate the current occupation of Tibet by China, but that political message is woven artfully into the story line, as are breathtaking descriptions of Indian and Tibetan life and landscape in 1891. The plot strains toward the end, resorting to bombast and magical fireworks, but, overall, this is an unusual and worthy addition to Holmesiana. (Jan. ) Forecast: The publisher promises national advertising and online promotion for this title. That's good, because this book has break-out potential via numerous markets: the mystery crowd, of course, but also general fiction readers and, not incidentally, the ever-growing mass of those interested in Buddhist-oriented literature. |