“Il francese, così, sta davvero diventando per me casa d’accoglienza, forse anche luogo di permanenza, dove ogni giorno si percepisce quanto effimera sia quell’occupazione. Ma infine ho compiuto il gesto augurale di varcare io stessa la soglia, in piena libertà, e non più succube di una situazione di colonizzazione.”
Nelle prime pagine l’autrice descrive quelle che considera le quattro lingue delle donne della sua terra: la prima, quella della roccia, la più antica “per lo più ribelle e selvaggia”, la lingua “libica”; la seconda, quella del Libro e delle preghiere, la lingua araba; la terza, “la lingua dei padroni di ieri” che permane, come un’ombra, nei popoli diventati liberi, la “lingua franca”; a queste tre lingue se ne affianca una quarta, quella del corpo “con le sue danze, le sue ipnosi, i suoi soffocamenti”. E Assia Djebar da queste molteplici voci si sente come assediata, sperimentando fin da bambina il complesso esercizio dello scrivere talora da sinistra a destra, talaltra da destra a sinistra. In questo recente volume pertando, in uno stile tra saggistico e autobiografico, tra poesia e narrativa, la scrittrice algerina mostra ai suoi lettori un percorso che, attraverso l’uso della lingua, si fa percorso di vita e di esperienze umane oltre che culturali. Le culture tradizionali a lungo bistrattate assumono nuova ricchezza se scritte in una grafia personale, in querllo che la Djebar definisce il “mio francese”. E su questa contaminazione sente la necessità di soffermarsi a riflettere, su questa “lingua dell’altro” di cui, con tanta profondità e familiarità, si è ormai appropriata. L’esperienza cinematografica ha avuto anch’essa il suo peso, perché alla voce si è aggiunto lo sguardo: il suono così assume la funzione di resuscitare le voci invisibili, quelle di chi è rintanato nell’ombra, e queste voci sono molto spesso femminili. La scrittrice che ha vissuto l’esperienza drammatica della persecuzione, della denuncia e della fuga, che ha lottato per una difficile emancipazione e ne è diventata l’emblema, fa del personale uso della lingua (o meglio delle lingue) un atto fortemente simbolico, specchio comunicativo delle tappe fondamentali della sua vita.
Prefazione
A volte lo scrittore viene interrogato come fosse in un tribunale: «Ma lei perché scrive?». A questa prima, banale domanda ne fa spesso seguito una seconda: «E poi perché scrive in francese?». Se qualcuno si rivolge a voi in questo modo, è soltanto per ricordare che venite da fuori. La francofonia è un territorio molteplice; certamente variegato e complesso. Si ritiene inoltre che disponga di un centro fisso, dove scrivono e discutono i cosiddetti francesi “d’origine”. Avrei potuto intitolare questa raccolta di saggi A margine alla mia francofonia; sarei tentata di completano: “a margine ma anche “in cammino”. Sì, la mia scrittura francese è veramente un cammino, anche impercettibile; la lingua, nei suoi giochi e nei suoi obiettivi, non è forse l’unico bene che può rivendicare lo scrittore? Questi testi, dove si mescolano più generi: poesia, brevi narrazioni, analisi, sono stati perlopiù improvvisati oppure redatti in fretta, a volte subito prima di prendere la parola. L’aspettativa di un pubblico, ristretto o numeroso (a Montréal, a Milano o a Venezia, a Francoforte o Heidelberg ecc.), mi spingeva a “spiegare” la mia scrittura, il mio percorso, il mio paese.
© 2003 il Saggiatore Edizioni
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