"Qui, su questa terra, vi uccidono chiudendovi dietro dei muri e delle finestre occultate. Non hai fatto il primo passo all'esterno che già ti senti esposta! Laggiù, nessuno ti guarda, nessuno ha veramente occhi!"
Due donne, anzi tante donne, schiacciate tra una tradizione soffocante e il desiderio irrefrenabile di libertà. Due di queste sono le mogli di uno stesso uomo, l'Uomo, ma una, la prima sposa, ha un giorno deciso di lasciare marito e figlia e, libera, di iniziare a conoscersi e a capire sé e tutte le altre. Si chiama Isma e assume il ruolo di narratrice, eterno ruolo di colei che per sopravvivere deve inventare storie. Moderna Shahrazâd la donna osserva la seconda moglie dell'Uomo, Hajila, e diventa la sua voce, il suo grido di disperazione. La casa è una prigione per chi ne è irrimediabilmente reclusa, il matrimonio una tortura insopportabile per chi viene consegnata ad un maschio per ottenerne protezione e tutela. Ed è stata Isma a scegliere la seconda sposa, che in arabo è chiamata derra, ferita. Ma la giovane Hajila inizia a sentire in sé il desiderio irrefrenabile di vivere una vita propria, di respirare liberamente attraverso la città, nelle strade che le aprono nuove immagini di una umanità sconosciuta e interessante. Così inizia a sfuggire ogni giorno, finché la luce la protegge, al suo ruolo di prigioniera: esce da quella bella casa in cui lei, che proviene dalla miseria di una baracca, avrebbe dovuto rimanere felicemente reclusa. Per le strade della città si libera anche del velo che la nasconde e cammina "nuda", clandestina e inebriata, fino a quando non si impone il rientro nell'appartamento lussuoso e nel ruolo di schiava privilegiata. Quando tale ribellione viene confessata da lei alla madre, la reazione è violenta: quel matrimonio, che ora Hajila mette in pericolo, rappresenta un vantaggio per tutta la sua famiglia che poteva sperare di liberarsi dalla miseria e dal disprezzo sociale. Eppure nemmeno le colpevolizzazioni plateali della madre sanno trattenere la giovane donna che, di giorno in giorno, accumula odio per il marito impostole e amore complice per il bambino che l'uomo aveva avuto da una prima donna straniera. Un episodio drammatico la libererà definitivamente dal senso di inferiorità colpevole, dal rispetto umile per il marito. L'uomo non l'aveva mai posseduta in sei mesi di matrimonio, ma una notte la stupra e da allora quel "rito" violento si ripete per molte notti. Ma il disprezzo che tale violenza sa provocare in lei le aggiunge forza e la toglie invece all'uomo. Inizierà a bere, crollerà per la consapevolezza della sua reale impotenza e tale disagio diventerà violenza cieca e brutale. Ma quell'uomo aveva avuto amore, aveva saputo suscitare amore e passione nella prima donna che aveva sposato, Isma. E lei, nel ricordo di momenti di tenerezza e di sensualità, ripercorre la sua vita di sposa, di bambina e di ragazza, fino al gesto clamoroso dell'abbandono (momentaneo) di marito e figlia. Ma l'avere cercato e trovato una nuova compagna al marito non le era sembrato un abuso su di un'altra donna, consapevolezza che invece si fa lentamente strada: non sarà mai per lei una rivale, ma non può neppure essere sua complice. E la bambina, che Isma riprende con sé glielo farà sentire con la spontaneità dell'età. Quest'ultimo romanzo di Assia Djebar ha ancora delle donne per protagoniste, donne arabe che tentano una liberazione individuale, che rifiutano la negazione alla vita che la tradizione impone loro. Tutto ciò senza porre in contrapposizione un'esaltazione dell'Occidente come paradiso o perfetta condizione di vita. Quello che la Djebar indica è l'esigenza della coscienza di sé che le donne dell'Islam devono avere, strada che forse solo la cultura e la solidarietà tra donne può aprire.
le prime pagine ------------------------ O mbra e sultana; ombra dietro la sultana. Due donne: Hajila e Isma. Il racconto che tratteggio delinea un duo peculiare: due donne che non sono sorelle e neanche rivali, benché, l'una sapendolo e l'altra ignorandolo, si siano ritrovate mogli dello stesso uomo - l'"Uomo", per riprendere l'eco del dialetto arabo che si mormora nella camera... Quest'uomo non le separa, e tuttavia non le rende complici. Una di loro, Isma, ha scelto l'altra per scaraventarla nel letto coniugale. Si è voluta pronuba del proprio marito; ha creduto così, per ingenuità, di liberarsi insieme del passato d'amore e del presente fermo. Nel chiaro-scuro, la sua voce s'innalza, si rivolge via via a Hajila presente, poi a se stessa, l'Isma di ieri... Voce che stilla nella notte, che si affligge nello splendore del giorno. Isma, Hajila: arabesco dei nomi allacciati. Quale delle due, ombra diventa sultana, quale, sultana delle albe, si dissolve in ombra davanti al giorno? La trama è appena abbozzata che un annullamento lentamente la corrode. Ho voluto darti in offerta all'uomo? Credevo di ritrovare il gesto delle regine del serraglio? Queste, quando presentavano un'altra sposa al padrone, in realtà si liberavano a spese di una falsa rivale... Riaffermavo a mia volta il mio potere? No, scioglievo i miei ormeggi. Certo, ti intralciavo, te innocente, da quando tua madre era diventata la mia alleata o complice, secondo la Tradizione. Prenderò il largo; ma mi aggiro ancora intorno a te. Ti dico "tu" per soffocare i miasmi di un rimorso incerto, come se riaffluisse il fascino delle donne d'una volta...
-Hajila! Meriem, mia figlia di sei anni, ha gridato il tuo nome quel mattino. La mano ben stretta nella mia, ti ha chiamata per la prima volta, fuori. Ho sentito vibrare, nella violenza blu del mattino d'estate, il nome che avevo tante volte mormorato per me sola. Meriem ha gridato il tuo nome all'alba, oh Hajila. E tu hai riso, in uno spasmo del tuo corpo magro, i capelli scossi da un oscillare ampio e brusco, quasi una sofferenza imprevista. Scendevi le scale di quel vicolo che avevamo creduto senza sbocco; non smettevi di scendere nonostante quel grido. Il movimento laterale della tua criniera scura rallentava a poco a poco. Delle passanti, bianchi fantasmi, sembravano fluttuare sullo sfondo. Baccano di bambini in lontananza. Io t'immaginavo correre giù per la città - o risalire in senso inverso tutte quelle scale. Come se lì, sotto i miei occhi, sgorgasse il tuo avvenire. E ho potuto lasciarti. Quello stesso giorno, Meriem e io siamo uscite dalla metropoli dal bianco polveroso; volevamo raggiungere i luoghi dell'infanzia, così avevamo deciso. -Hajila! Mia figlia ha ripetuto il tuo nome più piano: ci avvicinavamo alle rovine romane della mia città natale rannicchiata intorno al suo antico porto per metà sommerso. Laggiù, nella capitale, tu andavi alla deriva, errante, mendica, forse donna offerta ai passanti o ai viaggiatori di un giorno. Ecco che entrambe rinneghiamo l'harem, ma ai suoi poli estremi: tu al sole ormai esposta, io tentata di sprofondare nella notte risorta. Nessuno scambio si è stabilito fra te e me, né nei nostri richiami né nei nostri gesti. Evitando il faccia a faccia, avevamo dialogato poco prima dell'epilogo, sedute fianco a fianco nella penombra dell'hamman - l'acqua, scorrendo ai nostri piedi sulla pietra o fumando nelle vasche, diventava segno di tregua o inghiottimento. Abbiamo invertito i ruoli? Non lo so. Tua madre e mia figlia aspettano. Quale speranza farà oscillare, in questi luoghi, la pesante eredità? Il tuo riso disperato all'alba, oh Hajila, dopo che la mia bambina ti ha chiamata, da sopra la rampa. Sulla linea affogata dell'orizzonte, l'occhio dell'aurora dardeggia su di noi la sua minaccia. E la darsena, in basso, si gonfia del rumore degli uomini.
© 1999, Baldini&Castoldi s.r.l.
|