Gli strani casi del giudice Li
Il racconto poliziesco, che in Occidente nasce solo nel 1841 col signor Dupin di Poe, ha un'origine molto più antica in Cina, forse addirittura risalente all'XI secolo. E non è una tradizione ascrivibile solo vagamente al poliziesco, ma è un genere distinto, fatto di narrazioni di delitti enigmatici, risolti da un investigatore non casuale, e con tutto il corredo editoriale che sembra sostanzialmente connesso al "giallo": lingua parlata e non colta, capitoli separati come puntate che continuano, pubblicazioni seriali come riviste e a massiccia diffusione. Insomma veri e propri racconti polizieschi, le cui variazioni, nella fedeltà di un canone, attraversano i secoli: e della cui diffusa esistenza, del resto, già il sinologo olandese Van Gulik aveva dato nozione in parte riprendendoli in parte scrivendoli ex novo. Il giudice Li è invece un autentico investigatore cinese, uscito dalla pagina tardoccentesca di Xihong, letterato a riposo. Il quale, continuando una tradizione e innovandla, ha creato un detective acuto ragionatore, ma ricco di risorse pratiche ed esperto di arti marziali, che si muove dimesso in un arduo mondo realistico di poveri, corrotti e reietti (un detective, si può dire forzando appena, da hard boiled school). E come quegli scrittori che creano gialli credendo che il giallo sia il miglior mezzo per dire cose importanti, ha raccontato Gli strani casi del giudice Li anche per riabilitare una figura storica.
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GIUDICE LI = LI BENGHENG fu il grande mandarino del secolo scorso che compare nel romanzo "Gli strani casi del giudice Li", di Xihong, pseudonimo di un autore mai identificato, forse il segretario stesso del funzionario, desideroso di riabilitarlo dopo la condanna postuma. Questo magistrato, onesto e scrupoloso, ma animato da grandi ambizioni, visse sotto l'ultima grande imperatrice Ci-Xi (conosciuta anche come Tz'u-hsi, Dowager o Yehonala) e fu un fermo oppositore delle potenze occidentali durante la rivolta dei Boxers. Perdute due impari battaglie contro gli europei, dovette pagare con la vita la fedeltà assoluta al Trono del Drago: preferì infatti il suicidio al disonore di presentarsi da sconfitto davanti alla sua sovrana. Quest'ultima fu poi costretta dai vincitori a rinnegare suo malgrado il fedele ministro, privandolo post mortem di tutti i titoli e le cariche onorifiche. |