Stefano Malatesta Il Grande Mare di Sabbia Pagina 210
L'Acacus di Fabrizio Mori La mattina presto, quando il sole deve ancora sorgere, l'Acacus rimane invisibile sotto il cielo che non è mai veramente nero, ma turchino e l'unica cosa da fare è mettersi accanto al fuoco a riscaldare le ossa immobilizzate dal gelo della notte. Poi l'aria comincia a vibrare, i fondali dietro le montagne schiariscono, rivelando i profili smerlettati delle cime, sempre più netti sotto la luce diventata rosa e poi arancio, emergono i giganteschi pinnacoli isolati nella pianura, gli archi immensi, i pilastri megalitici e improvvisamente il paesaggio, che pochi minuti prima era annegato nel buio, appare ora popolato da fantastiche formazioni nate dagli sconvolgimento tellurici e trasformate dall'erosione. È una visione che sembra appartenere ai sogni o ai racconti delle fiabe, in cui si avverte, più che in qualsiasi altro luogo, il senso del remoto e della sospensione del tempo, dell'attesa dell'imprevedibile e del meraviglioso, come se qui non valessero le regole e le abitudini del mondo reale, ma di quello fantastico.
Il gebel (arabo per montagna) o tadrart (in tamascek, la lingua tuareg) Acacus non ha l'andamento di una normale catena di montagne, ma di un labirinto, con il versante verso Ghat chiuso e inaccessibile e quello che guarda ad est aperto e frastagliato, interrotto da canyon a loro volta attraversati da altri canyon e da uadi o sbarrati da gigantesche torri di arenaria che si sono ossidate all'esterno, mantenendo un colore più chiaro e più caldo all'interno, visibile nelle frane recenti. Lungo duecentocinquanta chilometri e largo cinquanta, è quasi completamente privo di vegetazione, eccettuate poche acacie spinose, i cui arbusti vengono manducati dai dromedari delle piccole carovane di passaggio e dagli asini selvatici. Quando piove, molto raramente, le sabbie fertilissime del deserto si ricoprono di una effimera peluche verdognola e quello che rimane delle acque, non avendo la forza di riempire gli uadi e renderli pericolosi, come succede in altre zone, finisce nelle ghelte, cavità irregolari della montagna, preziosi depositi per i tuareg. Ma diecimila anni fa qui non c'era il deserto, ma la savana e senza sognare di un verde lussureggiante, crescevano alberi e piante sufficienti per sostenere una popolazione animale diversificata tra predatori e predati, leoni, sciacalli, giraffe, bufali, struzzi, antilopi, e per consentire la presenza di una non sappiamo quanto numerosa popolazione umana, che dipendeva dalla raccolta di piante e radici e dalla occasionale, incerta e pericolosa caccia alle bestie selvatiche. La testimonianza di questa presenza, che è durata millenni e cioè fino a quando le condizioni climatiche lo hanno consentito, è sparsa su un numero incredibile di siti dell'Acacus, in aree riparate lungo i letti fossili dei fiumi ed è costituita da resti umani, da pietre lavorate o da terracotte frantumate, ma soprattutto da migliaia di incisioni e pitture.
Tra gli innumerevoli testi che avevo già letto prima di partire per la Libia, oltre quelli che mi portavo dietro, c'era Le grandi civiltà del Sabara antico, il saggio di Fabrizio Mori su questo meraviglioso complesso figurativo e artistico paragonabile al ciclo delle pitture rupestri degli aborigeni australiani nella Terra di Arnhem e alle grotte di Altamira in Spagna e di Lascaux in Francia. Ancora non sapevo che la via dell'Acacus passava per Trequanda, uno di quegli incantevoli paesi sparsi nelle colline tra Sinalunga e Montepulciano, circondati da boschi che danno al paesaggio un'intensità variabile con le stagioni, prima di arrivare alle crete della val d'Orcia. L'africanista (preferisco questo termine al più accademico paletnologo) si era ritirato da oltre venti anni a due o tre chilometri dal paese, in un casale che si trovava a poca distanza dal villaggio toscano dove passavo numerose settimane durante l'anno. |