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22/11/2024 05:39:37

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La cavalcata selvaggia

Grande Carlo


Editeur - Casa editrice

Ponte alle Grazie

  Asia
India
Himalaya


Pagine - Pages

264

Lingua - language - langue

italiano


La cavalcata selvaggia La cavalcata selvaggia  

Un'avventura di umano coraggio all'interno di una cornice naturale e selvaggia. Il protagonista, Pribaz, è un pilota da guerra italiano fatto prigioniero dalle truppe britanniche durante la Seconda guerra mondiale e deportato in un campo di prigionia ai piedi dell'Himalaya.
Costretto a far fronte alla durezza di un'esistenza che pare ormai senza scopo, giunto allo stremo delle forze dopo un fallito tentativo di fuga, Pribaz rinnega il fascismo e ottiene il permesso di compiere escursioni con i compagni di prigionia. Compirà una lunga marcia verso il lago Tso Moriri attraverso una terra popolata da pastori, orsi e carovane. Una marcia che sancirà il suo riscatto.

 



Recensione in lingua italiana

IL MONDO VISTO DAI NOSTRI SCRITTORI (8) - Con Carlo Grande tra India e Ladakh
A Yol, sulle tracce dei prigionieri italiani
Ai piedi dell’Himalaya, tra il ’40 e il ’45 furono deportati dagli inglesi 10mila soldati

di Francesco Mannoni


«Sono stato nel Nord dell’India e poi in Ladakh, il piccolo Tibet, sulle tracce degli ufficiali italiani che fino al 1946 furono prigionieri di guerra degli inglesi. Erano stati internati nel campo di Yol ai piedi dell’Himalaya, un luogo da cui era impossibile scappare, anche se in parecchi tentarono di farlo. Sono ritornato sulle piste che quegli italiani percorsero quasi sessant’anni fa, per scrivere il mio libro «La cavalcata selvaggia» (Ponte alle Grazie), e questo viaggio è stato uno dei più suggestivi della mia vita». Il giornalista e scrittore Carlo Grande racconta con emozione la sua avventura sul Tetto del Mondo, in quei luoghi unici per bellezza e tradizioni, rimaste entrambe in gran parte intatte. «Ho attraversato lo Stato indiano del Panjab, a ridosso dell’Himalaya, per arrivare fino a Yol. Amo moltissimo la montagna, ma in questo caso ero attirato anche dalla storia, dal desiderio di conoscere i luoghi dove più di diecimila nostri connazionali furono tenuti in cattività come bestie, condannati all’abbrutimento e al disprezzo». - Com’è che li portavano in questo campo nel Ladakh, anziché tenerli in quelli dell’India? «Perché nei campi indiani il gelo era insopportabile e gli uomini morivano come mosche, mentre a Yol il clima è meno rigido. Dopo l’8 settembre, il 75 per cento dei prigionieri italiani abiurarono il Partito Fascista e firmarono un documento di collaborazione. Si trattava per la maggior parte di ragazzi di meno di trent’anni che avevano visto cose orrende in guerra e pensavano solo a salvare la vita». - Che cosa accadde dopo? «Chi aveva ripudiato il fascismo otteneva dei permessi dagli inglesi per allontanarsi dal campo e stare via anche dieci, quindici giorni. Quelli che invece rimasero fedeli al fascismo furono rinchiusi nel campo n. 25, chiamato dagli inglesi «campo criminale», da cui nessuno poteva uscire. Era come un carcere duro, senza nessun rispetto dei diritti umanitari. «Un buon numero di alpini grazie alla loro scelta furono liberi di andare a scalare le montagne soprastanti, alte fino a settemila metri, e conquistarono quei baluardi che si ergevano minacciosi attorno al campo, tramutandoli in pilastri della libertà. Agli inglesi che hanno inventato l’alpinismo e l’esplorazione mostrarono di saper compiere imprese alpinistiche e antropologiche, perché nel corso delle loro escursioni entravano nei villaggi, nei templi tibetani e buddisti, si documentavano su ogni cosa, e al ritorno facevano una relazione agli inglesi che di quei posti sapevano poco». - Lei ha ripercorso anche i tragitti di quelle loro esplorazioni? «Proprio così. Soprattutto è stata un’emozione intensa rivivere l’impresa compiuta da un gruppetto d’internati nel 1945. Viaggiarono per un mese, una "cavalcata selvaggia" come loro la chiamarono nei loro diari, che li condusse oltre il passo di Rohtang, situato a 4.000 metri sopra Manali, fino ad un grande lago a 5.000 metri di quota. È un lago fiabesco, leggermente salato, sa di borace, un minerale che affiora dal terreno. Sono rimasto parecchio tempo ad ammirare quel grande specchio d’acqua luminoso che sembrava contenere il cielo nella sua forma rotonda. In un mese, col solo ausilio dei muli, gli alpini scalarono altezze considerevoli. Io ho ripercorso le loro orme con un fuoristrada e già non è stata un’impresa facile, figuriamoci per loro che andavano a piedi. Ancora oggi questa è l’unica strada per andare da Manali a Leh, la capitale del Ladakh». - Cosa s’incontra lungo questo tragitto? «Villaggi e tende di pastori, un ambiente estremamente selvaggio. Prima di dirigermi verso la conca di Yol, ho visitato Dharamsala, dove oggi risiede il Dalai Lama in esilio. È un villaggio fra le montagne, con un clima mite e circondato da boschi di cedri. Il contrasto con il Ladakh è fortissimo. Superato il passo di Rohtang dal quale scesero le armate di Gengis Khan che arrivavano stremate dal cuore dell’Asia, la vegetazione infatti diventa bassa e rada, e per due giorni di cammino non si vede più un albero in quei brulli altipiani dove dopo il tramonto spira un vento gelido. Sono già gli altipiani del Tibet, quella che gli abitanti chiamano "la terra vuota", incastonata tra l’Himalaya e il Karakorum». - Che tipo di Stato è quello del Ladakh? «Il Ladakh era un antico regno tibetano che poi è diventato indipendente. In pratica è un deserto ad alta quota, affascinante come tutte le terre vuote: serpeggianti torrenti di smeraldo si alternano a quinte di rocce dalle forme insolite. La natura si è sbizzarrita scolpendo la pietra con incredibili disegni e ricami che sembrano opera di grandi artisti». - Mi parli di Leh, la capitale. «Leh, a 3.522 metri di altitudine nella valle dell’Indo e con una popolazione di non più di quindicimila persone di diverse razze e religioni, è un paesone multicolore. Negli ultimi anni vi si sono stabiliti molti rifugiati tibetani, in fuga dalla dominazione cinese del loro Paese. Nel complesso è una cittadina piacevole, con un bazar e uno splendido tempio buddista tibetano che è stato il modello a cui ci si ispirò per costruire il Potala, la residenza del Dalai Lama a Lhasa, in Tibet. È un monumento impressionante, che incombe dall’alto sopra la città. A Leh ci sono anche molti musulmani, e tutti convivono e commerciano alacremente. «Leh è il punto di arrivo e di partenza delle escursioni nelle zone circostanti, dove ci si riposa e si trovano le guide, indispensabili anche per chi ha una buona conoscenza dei luoghi, per evitare le pattuglie dell’esercito cinese, perché è facile sconfinare nella zona protetta. India e Cina stanno combattendo, in quelle terre ad alta quota, una vera guerra di cui in Occidente non ci si occupa, perché crediamo che si tratti di semplici scaramucce per questioni di confine. Anche tra India e Pakistan ci sono contrasti, e perciò quella regione pullula di militari». - Di cosa vive la popolazione del Ladakh? «Il Ladakh, che d’inverno rimane isolato dal resto del mondo, è molto povero. Buona parte dei villaggi non hanno la corrente elettrica, e spesso vedendomi la gente usciva dalle case per chiedermi medicine. In questo crocevia di razze e religioni si vive ancora come nel Medio Evo. Ma si conserva anche una dimensione mistica, che per noi Europei, abituati al frastuono di una civiltà assordante, è un vero balsamo. Dappertutto ci sono monasteri, a volte isolati in mezzo agli ulivi o su rocce altissime, o abbarbicati alle montagne, con i loro monaci dagli ampi mantelli, che sono i custodi delle tradizioni. Essi mi hanno fatto pensare ai padri del deserto, perché il Buddismo per certi versi ha molte assonanze col Cristianesimo. Nella "terra vuota" si pratica il distacco dal mondo, emergono i valori più profondi dell’umanità, cadono le false illusioni e si capisce meglio ciò che conta veramente».