Diario veneziano
Nel Diario veneziano Acheng porta all’estremo limite il suo sguardo «taoista» sul mondo. L’esercizio della distrazione, una semplicità e un’essenzialità costruite attraverso la disciplina della sottrazione, una capacità di sintesi che consente ad Acheng di unire punti lontanissimi nello spazio e nel tempo: all’inizio del Diario, passando dalla descrizione della Los Angeles bruciata dalle violenze razziali al ricordo di un episodio della Rivoluzione culturale, lo scrittore conclude con disarmante ironia: «Nei grandi disordini c’è sempre un grande silenzio». La forza segreta di questo libro, che si colloca in un preciso genere letterario — detto biji (letteratura in forma appunto), divenuto popolare in Cina a partire dal periodo delle Sei dinastie (265-589) — sta proprio nella svagatezza e concisione quasi algebrica dello stile. Venezia, dove Acheng ha vissuto per due mesi nel 1992, appare e scompare nel corso del Diario come quei disegnini lievi sui vetri appannati dal vapore che mutano forma e diventano all’improvviso un’altra cosa. Eppure questo tessuto aereo di immagini è sorretto da un’intelaiatura robustissima di idee che formano, come ha scritto Edoarda Masi, «una trama coerente, seppure invisibile al lettore distratto. La simpatia per il meticciato e l’ostilità ai nazionalismi. Lo spirito antiaristocratico. L’insofferenza per le corporazioni degli intellettuali di ieri e di oggi, nella varietà cinesi e occidentali. L’ironia sull’antico e sul moderno, e anche sul postmoderno», sono alcuni dei nodi attorno ai quali si coagula la visione del mondo di Acheng.
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