Un gesuita in Cina
Nel 1582, quando il gesuita marchigiano Matteo Ricci lasciò Goia per raggiungere Macao, la Cina e l’Europa erano mondi reciprocamente impermeabili e sconosciuti. Trent’anni dopo, l’Europa del XVII secolo si sarebbe fatta un quadro preciso della storia, della cultura, dei costumi della Cina (e ne sarebbe stata potentemente influenzata) grazie ai Commentari della Cina di Ricci, mentre i cinesi, da sempre convinti di essere l’unico popolo civile in mezzo ai barbari, “ a poco a poco concepivano una grande opinione delle cose d’Europa”, dopo aver apprezzato la scienza, la dottrina e la grazia di Matteo, ed essersi stupiti dei “mappamondi, horiuoli, sfere ed astrolabij” che aveva portato con sé. Per questa straordinaria opera di mediazione culturale, Matteo Ricci non solo imparò il cinese /e lo padroneggiò perfettamente, tanto da scrivere e tradurre numerose opere in cinese), ma divenne cinese, si fece chiamare Li Madou, e si gettò in Un arditissimo tentativo, almeno in parte riuscito, di fondere gli insegnamenti di Cristo con quelli di Confucio. Nell’ottobre 1986, Giulio Andreotti era in Cina in qualità di ministro degli Esteri, e fu condotto a visitare la scuola centrale del partito comunista. Con sua sorpresa, scoprì che nel parco della scuola c’era un tempietto con la tomba di Matteo Ricci e di altri gesuiti, e il diplomatico che lo accompagnava commentò: “Siamo dinanzi alla tomba dell’unico straniero che ci ha aiutato a comprendere la nostra nazione”. Da allora, Andreotti è tornato più colte in quel parco, e oggi, nel quarto centenario dell’ingresso dei gesuiti a Pechino, ha voluto raccontare in questo medaglione l’avventura umana di Matteo Ricci: una vicenda segnata da un’opera instancabile a favore della comprensione fra i popoli, che continuerà a dare frutti anche nel ventunesimo secolo.
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