Dove poté mai fuggire la donna di nome Wang, rea di adulterio, prima di venire assassinata dal marito? Sicuramente lungo strade infestate da briganti, battute da venditori di tè, monaci taoisti, cantastorie itineranti. E sicuramente lontano dalla legislazione labirintica e spietata che, nella Cina del seicento, stringeva la donna in una morsa - non diversamente dalle bende che fasciavano i piedi delle concubine. È in questo oscuro territorio, fra burocrazia e rituale, che Spence attira il lettore, e più precisamente nella contea di T'an-ch'eng (pinyin Tancheng), nel breve arco ti tempo che va dal 1668 al 1672. Ripercorrendo vicende rimaste impigliate in opache compilazioni di storia locale o trattati destinati alla formazione dei burocrati, e servendosi del contrappunto dim uno dei maggiori narratori del tempo, P'u Sung-ling (pinyin Pu Songling), Spence resuscita miracolosamente una società devastata da cataclismi e carestie, in cui un sistema feudale fondato su un complesso apparato vessatorio deve ogni giorno far fronte a razzie e ribellioni. Ra ataviche querelles familiari e questioni d'onore risolte da una giurisprudenza di implacabile efferatezza, affiorano i ritratti di donne suicide o fuggitive, creature in eroica lotta contro un mondo maschile che le voleva muta merce di scambio, e di cui la donna Wang rappresenta l'esempio più alto e straziante. Ma in questo libro ritroviamo soprattutto l'arte mimetica di Spence, che, come già nel mirabile Imperatore della Cina, riesce a far risuonare nelle laciniche testimonianze abbandonate ai margini della storia ufficiale la voce densa e irriducibile della Storia stessa.
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