Prologo
DUNQUE, DA DOVE DEVO INIZIARE?
Dal volto. Sì, iniziarne dal volto, che indica il mutare del cuore. È grazie al volto che decodifichiamo i pensieri, traducendoli in una lingua priva di suoni. Sei perplesso? Ti chiederai come possa esistere una lingua priva di suoni. Non negare. Te la leggo negli occhi questa domanda. Mi rendo certo conto che conosci molto poco del mondo in cui sto per condurti. Capisco che tu sia preoccupato che tutto questo possa andare oltre la tua comprensione. Ma voglio che tu sappia che fallirei nel mio scopo se non ti trasmettessi almeno una stilla dell'amore che nutro per la mia arte. Quando avrò finito, sono convinto che proverai i miei stessi sentimenti. O almeno, quasi. Fidati di me. È tutto quello che ti chiedo. Fidati e ascolta. E fidati della tua intelligenza. Non lasciare che siano altri a decidere per te quello che è o non è alla portata della tua comprensione. Sei in grado di assimilare questo e molto di più. Te lo assicuro. Guardami. Guarda la mia faccia. La faccia nuda, quando è priva di colori e trucco, di lustrini e ornamenti. Che cos'abbiamo qui? La fronte, le sopracciglia, le narici, la bocca, il mento e trentadue muscoli facciali. Sono questi i nostri strumenti ed è con questi che creeremo quella lingua senza parole. I navarasa: amore, scherno, dolore, ira, coraggio, paura, disgusto, meraviglia, pace. Nella danza, come nella vita, non ci servono più di nove modi di esprimerci. Li puoi definire i nove volti del cuore. Col tempo, ciascuno l'avrebbe ricordato in modo differente. Ma, per il resto della loro vita, mai sarebbe svanito; il ricordo di quell'istante di grazia. Di luce che scivolava lungo la scala di alluminio, proiettando come ombra un alone bianco; di una brezza che s'era rinfrescata sopra le pozze d'acqua disseminate lungo il letto del fiume. Di Chris in attesa, un'isola di immobilità su quel binario così affollato. Stava immobile, incurante degli sguardi curiosi dei ragazzini che gli si erano fatti intorno con gli occhi famelici e le mani tese, dei venditori che lo incitavano a comprare la loro mercé. Ignaro del fatto che il suo bagaglio stesse bloccando l'accesso alle scale, strappando mormoni e borbottii alla gente che inciampava nelle sue valigie. Chris si guardò intorno, mentre spirali di luce rimanevano impigliate nei suoi capelli; il peso di quella che pareva una gigantesca custodia di violino gli piegava il corpo da una parte. Quasi a compensazione, la bocca era tirata a formare una linea storta, dubbiosa. Rimasero lì per un istante, a osservarlo. Poi lui alzò lo sguardo e li vide fermi in cima alle scale. Un vecchio, una giovane donna e un uomo non giovanissimo. Esitanti, incerti, eclissavano il fascio di luce e rallentavano la fiumana dei passi. La linea della bocca si addolcì in una curva, un gesto in cui la contentezza era così trasparente e così scevra della consapevolezza di quanto sarebbe accaduto in seguito, che ciascuno ebbe la sensazione che un'ala di farfalla, vellutata ed eterea, avesse sfiorato loro l'anima. Una carezza breve e incantatrice: subito, come fu svanita, ne sentirono la nostalgia. Tale fu la grazia di quell'istante. Poi, come volesse accampare un primo diritto, la giovane donna si fece avanti. «Salve, lei deve essere Christopher Stewart», disse. «Io sono Radha. Benvenuto». Aveva teso la mano verso di lui proprio mentre Chris univa le sue nel riamaste, come la sua guida suggeriva di fare quando si saluta una donna in India. Radha lasciò cadere la mano, come le fosse stato mosso un rimprovero. Lui le tese la sua, come a chiedere scusa. Con quell'annaspare di gesti, modi e tentativi maldestri, Chris si installò in una nuova terra. «Salve, io sono Chris. Piacere di conoscerla, Radha». Pronunciò il suo nome attardandosi sulle sillabe, affidandole alla memoria, assaporando ogni gruppo di suoni. Radha rabbrividì. Radha era un soffio lieve alla base della spina dorsale. Per rompere l'incantesimo, si volse verso l'uomo non giovanissimo. «Questo è Shyam», disse. Lui sorrise e gli tese la mano. «Scem», quasi guai Chris, con la sensazione di aver infilato le dita in un mangano. Ma che razza di nome era quello? O, per meglio dire, che tipo di animale era quello? si chiese districando le dita dalla stretta. Nascose le mani dietro la schiena e prese ad aprire e chiudere lentamente le dita intorpidite. Ignorando il disagio di Chris, l'uomo protestò: «Scemo, non sono uno scemo. E S-h-y-a-m». Ma Chris si era già diretto verso il vecchio. «E lei, signore», disse lentamente. Gli era stato detto che l'anziano parlava un po' d'inglese. «Lei deve essere Mr. Koman». L'anziano fece un cenno con la testa. Chris sorrise, incerto. Nei pochi giorni che era stato in India, aveva già avuto a che fare con quel modo di annuire e non riusciva ancora a decifrare se significasse un sì o un no. Radha si avvicinò al vecchio. «Zio», disse, «questo è Christopher Stewart». Chris disse lentamente, non del tutto certo di quanto l'uomo lo comprendesse: «II suo amico, Philip Read, mi ha parlato molto di lei. Sono onorato che abbia accettato di incontrarmi». Il vecchio gli prese le mani tra le sue e sorrise. Il calore del suo sguardo intenso gli si insinuò dentro. Chris esaminò furtivamente il volto del vecchio, alla ricerca di qualche tratto o curva familiare. Vide delle zampe di gallina che increspavano gli occhi sotto le sopracciglia cespugliose. Osservò che gli zigomi alti distendevano la pelle dell'anziano, conferendogli un aspetto quasi giovanile e poi vide la fossetta sul mento e sentì una vampa di luce. Fissò intento le loro mani intrecciate. Ciao, disse fra sé. Ciao, vecchio al di là del mare. Ciao, padre... forse. Ciao, ciao, ciao...
© 2006, Neri Pozza Editore
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