India antica e India moderna: l'immaginario occidentale si muove fra questi due estremi, senza riuscire a risolverli in una figura coerente. Alla terra del misticismo e della saggezza spirituale, apparentemente estranea alla frenesia della storia, si contrappone oggi il paese del nuovo miracolo economico, "retrobottega" dell'industria tecnologica, ansioso di lasciarsi alle spalle le proprie tradizioni per lanciarsi alla rincorsa dei nuovi valori proposti dalla modernità. In questo illuminante volume, il premio Nobel Amartya Sen demolisce alcuni fra i più diffusi stereotipi occidentali sul suo paese e getta un ponte fra la sorprendente vitalità dell'India contemporanea e la straordinaria ricchezza del suo passato politico e culturale millenario. Centrale nella sua nozione di India è la lunga tradizione di eloquenza e di argomentazione pubblica che contraddistingue la storia del paese. Questa tradizione ha influenzato la storia della letteratura, lo sviluppo delle scienze empiriche e della matematica, ma è anche alla base del pluralismo intellettuale e religioso che ha consentito la convivenza delle più diverse consuetudini religiose e culturali, dal buddhismo al jainismo, sino al fecondo incontro con le religioni provenienti dall'esterno, e in particolare con l'islam. Riprendendo alcuni fra i temi più caratteristici del suo pensiero, Sen individua nei tre concetti di razionalità, libertà e voce (intesa come comunicazione e come dissenso) il fondamento più autentico e vitale del progresso e della democrazia, e ripercorre il lungo cammino della storia indiana alla ricerca delle tappe fondamentali in cui questi valori hanno trovato espressione. Nell'illustrarci la grande tradizione razionalista e scettica del suo paese, Sen muove dalle prime testimonianze scritte, i Veda, cita gli antichi poemi epici, il "Ramayana" e il "Mahabharata", si sofferma sulla fioritura delle scienze e della matematica durante la dinastia Gupta e segue il corso della grande corrente scettica ed eterodossa attraverso le figure di Ashoka e di Akbar; ma non trascura nemmeno l'importanza del multiculturalismo che trova espressione nell'opera dei più illustri esponenti dell'India moderna, nella poesia di Tagore e nel cinema di Satyajit Ray, né si sottrae al confronto con quei rappresentanti della cultura e della politica contemporanea (da Samuel Huntington al movimento Hindutva) che, teorizzando l'esistenza di una civiltà specificamente indù, sminuiscono l'eredità di un passato che nell'eterogeneità dei suoi apporti ha sempre avuto il proprio punto di forza. L'"altra India" che Sen ci invita a scoprire si rivela, attraverso le pagine di questo libro, molto più sorprendente e a un tempo più vicina di quanto abbiamo mai immaginato.
Le prime righe
Segni diacritici per le parole sanscrite
Dei 49 fonemi della lingua sanscrita la maggior parte si pronuncia come gli analoghi fonemi dell'italiano. Ci soffermeremo quindi solo sulle differenze e su quei fonemi che non hanno un corrispettivo in italiano. Le vocali semplici a, i, u possono essere brevi o lunghe. Le lunghe (ā, ī, ū) hanno una doppia durata vocalica, che è importante far rilevare dal momento che basta scambiare una lunga con una breve per avere una parola con significato anche radicalmente diverso. Mentre in i, u, ī, ū il timbro vocalico rimane lo stesso e cambia solo la durata, tra a e ā cambia anche il timbro (la a breve ha un timbro scuro e «chiuso», come nell'inglese but, di contro a quello «aperto» di ā). Altri due suoni «vocalici» sono r e l pronunciati generalmente facendo seguire a r e l una i breve: rgveda si pronuncerà dunque «rigveda»; si tenga però presente che nell'India meridionale la pronuncia corrente è invece «ru», il che spiega perché i dotti missionari che nel Settecento avevano studiato in Tamil Nadu o in Kerala, riferendosi al sanscrito (samskrta), parlavano di lingua «samscrudanica». e, o, esiti di antichi dittonghi, sono da pronunciarsi sempre chiusi e sono prosodicamente lunghi. Nei dittonghi ai, au la a va pronunciata breve. m è una breve risonanza nasale che segue una vocale. h si pronuncia come una breve aspirazione che segue una vocale (nella pronuncia attuale la si fa poi seguire da un'eco della vocale che precede). Le occlusive aspirate sorde o sonore kh, gh, ecc. si pronunciano facendo seguire a k e g un'aspirazione, rispettivamente sorda o sonora, inclusa nello stesso sforzo articolatorio. g è sempre gutturale, anche se seguita da e, i (dunque, gītā si pronuncerà «ghita»). c e j sono sempre palatali, anche se seguiti da a, o (candra = «ciandra», jana = «giana»).
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Il verdetto del Nobel AmartyaSen Tratto dal capitolo "L'induismo vendicato dagli archeologi" in L'impero di Cindia" di Federico Rampini
Nel poema epico Ramayana del IV secolo avanti Cristo, uno dei testi fondamentali dell'induismo, il saggio Javala si rifiuta di trattare Rama come un Dio e non esita a definire sciocche le sue azioni. Il Ramayana dà ampio spazio ai ragionamenti di Javala secondo cui “non esiste un aldilà, né alcuna pratica religiosa può farci raggiungere un paradiso ultraterreno ... il dovere di adorare Dio, di fare sacrifici e penitenze è stato inserito nelle scritture da uomini furbi che volevano comandare sugli altri”. Per l'indiano Amartya Sen, premio Nobel dell'Economia, la presenza di un lucido ateo fra i protagonisti del Ramayana fa il paio con un ricordo d'infanzia. Il nonno di Sen, grande studioso di sanscrito e docente alla scuola di Rabindranath Tagore, lungi dall'essere deluso dall'agnosticismo del nipote gli disse: “Dopo avere esaminato la questione religiosa tu hai deciso di collocarti nella Lokayata, cioè nella corrente atea della tradizione induista”. Non è questa l'India dei nostri stereotipi, che crediamo sempre profondamente spiritualista e impregnata di religiosità. Nel suo saggio L'altra India (Mondadori, 2005) Sen sfida le semplificazioni per restituire un'immagine sorprendente del suo paese. il suo obiettivo non è solo rendere giustizia alla civiltà indiana, ma dimostrare che la tolleranza, e quindi la democrazia, non hanno radici esclusive nella storia e nel pensiero dell'Occidente. È un messaggio che prende di mira due bersagli diversi. Da una parte c’è l’egoismo di europei ed americani che pensano di «esportare» la democrazia. Dall’altra c’e un avversario non meno insidioso, agguerrito soprattutto in Asia: è il relativismo politico che respinge la liberaldemocrazia proprio in quanto valore occidentale; è l’esaltazione di una diversità asiatica che da parte di certe classi dirigenti - vedi la Cina - diventa l'alibi per negare libere elezioni, legittimare regimi autoritari e calpestare i diritti umani. Scavando nella storia dell'India, Sen individua una meravigliosa ricchezza nella “tradizione argomentativa” che dà il titolo alla versione originale inglese della sua opera (The Argumentative lndian). È il costume che da tempi molto antichi lascia fiorire convinzioni diverse, accetta l'eterodossia e l'eclettismo, esalta la virtù del dialogo, perché ha in sé una venatura di scetticismo. In un altro testo sacro dell'induismo, la Rigveda (1500 a.C.), la stessa origine divina del mondo viene messa in dubbio: “Chi può davvero sapere? Chi può affermare certezze? Da dove viene il creato? Forse si è formato da solo, o forse no. Colui che osserva dall'alto dei cieli, solo lui sa. O forse non sa affatto”. La componente induista non è l'unica ad avere lasciato in eredità agli indiani il rispetto delle opinioni altrui e il valore della tolleranza. L'imperatore buddista Ashoka, nel un secolo avanti Cristo, stabilisce le regole per condurre dibattiti e dispute in maniera civile, senza volontà di sopraffazione, bensì “onorando l'oppositore in tutte le occasioni”. L'imperatore musulmano Akbar, alla fine del XVI secolo, afferma il principio che lo Stato de- ve rimanere equidistante da tutte le religioni. L'antico costume “argomentativo”, la consuetudine al dibattito pubblico degli indiani, ha un ruolo cruciale nel creare un terreno favorevole alla democrazia. New Delhi sarà capace di esportare i suoi valori o al contrario è il modello indiano a essere minacciato di estinzione? Questa seconda ipotesi ha assunto una certa forza nell'epoca in cui sembrava irresistibile l'ascesa del nuovo integralismo indù, emerso come una forza politica ririlevante con il movimento Hindutva (che letteralmente significa “la qualità dell'induismo”). Il partito Bjp, che durante l'ultimo ventennio ne è l'espressione parlamentare, ha collezionato suc- cessi a ripetizione. Aveva solo due seggi parlamentari nel 1984, cinque anni dopo è salito a 85, nel 1991 era a quota 119, nel 1999 era riuscito a fare eleggere 182 deputati ed era il partito di maggioranza relativa. Sen contesta che la Hindutva sia fedele alle correnti più importanti dell'induismo. Cita una celebre definizione dell'identità nazionale data da Tagore nel 1921: “L'idea differenza e della separatezza tra il proprio popolo e gli altri”. È un concetto che si ritrova anche nel Mahatma Gandhi: l'identità indiana è spaziosa e assimilativa, pluralista e ricettiva, inclusiva e umanista. Per questo stesso motivo l'India è meno vulnerabile di fronte alla globalizzazione dei prodotti culturali e degli stili di vita, perché nella sua storia ha sempre saputo integrare influenze esterne senza smarrire la sua forte fisionomia. Sen è fiducioso, esclude che la Hindutva possa trionfare e che il Bjp diventi un partito egemone, stravolgendo la convivenza tra le varie comunità che formano la nazione indiana. Osserva che anche prima della sua sconfitta elettorale del 2004 a opera del Partito del Congresso, il Bjp non ha mai rappresentato più di un terzo degli indiani di religione indù. In vari studi Sen ha dimostrato la superiorità della democrazia indiana sul comunismo cinese nel combattere la fame: dopo l'indipendenza, l'India non soffrì più di carestie paragonabili a quella che sterminò almeno 30 milioni di cinesi nel 1958-61. il premio Nobel non è affetto da parzialità in favore del proprio paese. Pur essendo assai lontano dal marxismo, non esita a riconoscere dei campi in cui la Cina comunista ebbe risultati migliori dell'India: sotto la dittatura di Mao il progresso nelle condizioni di salute e nella longevità media dei cinesi fu maggiore. Solo oggi l'India sta recuperando il terreno perso rispetto alla Cina, dove la privatizzazione dei servizi sociali provoca una battuta d'arresto nel progresso delle condizioni sanitarie. Proprio questo indicatore fondamentale della qualità della vita -la longevità media delle persone - serve ad analizzare più in profondità la sfida tra i due modelli di India e Cina. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, proprio nei 25 anni in cui la Cina ha conosciuto il suo sviluppo più formidabile (dalle riforme di Deng Xiaoping a oggi) distanziando l'India in termini di Pil e reddito pro capite, l'aumento della speranza di vita media in India è stato circa il triplo di quello cinese. “Oggi in Cina” osserva Sen “l'aspettativa è di circa 71 anni contro i 64 dell'India. il divario a favore della prima, che era di 14 anni nel 1979, si è dimezzato.” Sen osserva che in uno degli Stati indiani, il Kerala, l'aspettativa di vita ha addirittura superato quella cinese. Eppure il Kerala non è uno degli Stati più ricchi. Ha però sviluppato dei servizi sociali accessibili a tutti, ha combattuto efficacemente la disparità tra i sessi (fino a raggiungere un rapporto femmine / maschi nella popolazione eguale a quello nord americano o europeo), e grazie alla qualità della sua assistenza sanitaria ha una mortalità infantile che è un terzo di quella cinese. Sen non è particolarmente soddisfatto dei risultati ottenuti dall'India in campo sanitario. Piuttosto egli ritiene che sia stata la Cina a subire una battuta d'arresto, da quando ha messo fine all'assistenza sanitaria pubblica gratuita, creando un sistema fortemente sperequativo in cui le buone cure costano sempre più care e una parte della popolazione non può permettersi medici e ospedali. Qui rientra in gioco la democrazia. “Questo ritorno indietro dell'assistenza sanitaria, con l'abolizione di un servizio pubblico preziosissimo” sostiene Sen “non ha quasi incontrato resistenze politiche, a differenza di quanto sarebbe invece sicuramente accaduto in qualsiasi democrazia multipartitica”. Anche l'India ha un sistema sanitario a due velocità, ottimo per i ricchi e scadentissimo per i poveri, ma questo è oggetto di continue criti- che da parte dei mass media indiani, che non sono sottoposti a censure come avviene invece a Pechino. “La possibilità di una dura critica costituisce anche un'opportunità sociale per fare ammenda. Certe dure inchieste giornalistiche sulle carenze dei servizi sanitari indiani sono, in ultima analisi, fra le cause del dinamismo e dell'energia del paese, che sono rispecchiati anche dalla brusca riduzione del divario Cina-India per quanto riguarda la speranza di vita e dal fatto che il Kerala, combinando la partecipazione democratica con un impegno sociale radicale, ha ottenuto risultati ancora migliori.” Il Kerala, di cui è originaria l'autrice Arundhati Roy, è un “piccolo” (su scala indiana) Stato di 30 milioni di abitanti, che si trova lungo la costa del Malabar, all'estremità sudovest del paese. Quello che Sen omette di ricordare - solo perché è un fatto scontato per gli indiani - è una peculiarità politica del Kerala che rende ancora più singolare il paragone tra le sue politiche sociali e quelle della Cina: il Kerala, nel 1957, divenne il primo Stato del mondo dove un partito comunista andò al governo vincendo delle elezioni libere, pluraliste e democratiche. Da allora il Kerala è stato governato dai comunisti, per volontà degli elettori, e continua a esserlo. Un'altra peculiarità rinvia agli inesauribili paradossi dell'India. Questo bastione del comunismo all'indiana e delle politiche sociali progressiste non ha visto scomparire le caste. Anzi, il Kerala è un caso estremo in senso opposto. Il sistema delle caste vi è così radicato che localmente è stato adottato e interiorizzato perfino dalle religioni non induiste. Tra queste l'antica comunità cristiana del Kerala, di origine siriana, che ha fatto propria la suddivisione in caste. |