Il Dalai Lama
Sabine Löhr è una giornalista tedesca. È una profonda conoscitrice del Tibet e del buddhismo tibetano e questa sua è una biografia del Dalai Lama ricca di informazioni, ma anche di gradevolissima lettura, che in pari tempo introduce il lettore al pensiero di Sua Santità Tenzin Gyatso, ampiamente illustrato e antologizzato. D’altronde il Dalai Lama rappresenta una delle massime autorità spirituali del pianeta, rispettata e ascoltata anche da chi segue una religione diversa dal buddihismo.
Intorno al concetto centrale della non violenza, certamente importantissimo ma probabilmente già abbastanza noto al pubblico occidentale, l’autrice organizza gli avvenimenti pubblici e personali che hanno costellato la vita del Dalai Lama, una vita in cui l’inizio dell’esilio funge da simbolico spartiacque.
Al di qua il Tibet: la primissima infanzia in un villaggio di contadini, il cui ricordo è ormai trasfigurato e idealizzato dal tempo trascorso; il riconoscimento del bambino da parte dei monaci buddisti, denso di aneddoti tanto miracolosi quanto mirabolanti; quindi la trasformazione di un bambino in un monaco buddista, con tutta la disciplina, la solitudine, i sacrifici, ma anche le soddisfazioni che ne derivano; infine gli anni ’50, a Lhasa, che vedono inesorabilmente avvicinarsi la minaccia cinese finché nel 1959, pochi giorni dopo aver terminato brillantemente i suoi studi, il Dalai Lama lascia il Tibet, forse per sempre.
Al di là dello spartiacque l’India: dall’isolamento dorato del Potala alla politica, le conferenze, le manifestazioni, i viaggi in ogni parte del mondo. In esilio da ormai più di 40 anni, il Dalai Lama è divenuto un personaggio sempre più popolare, autore di veri e propri best-seller, insignito di un premio Nobel per la pace ed ammirato da uomini e donne di ogni nazionalità e religione. Non ha tuttavia dimenticato il Tibet e la sua gente: per loro continua a portare avanti la sua lotta non violenta, nonostante gli anni e la stanchezza.
Ma la vera originalità del saggio di Sabine Löhr risiede soprattutto nello stile e nella scioltezza con cui agli avvenimenti meramente biografici l’autrice mescola i pensieri del Dalai Lama stesso, a volte sereni e persino spiritosi, altre volte sofferenti, sempre però profondamente e radicalmente impregnati di quella concezione del mondo buddista che non può non affascinare l’uomo occidentale «che va di fretta».
Il 6 luglio 1935, da una famiglia di poveri contadini di Taktser, un villaggio nella regione dell'Amdo in Tibet, nasce un bambino di nome Lhamo Thondup. Nel 1939, dopo aver superato varie prove, il giovanissimo Lhamo viene portato nel monastero di Kumbum e qui, oltre a essere riconosciuto come la reincarnazione del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso, è proclamato Dalai Lama a sua volta e ribattezzato con il nome di Tenzin Gyatso, ovvero "Oceano di saggezza". Inizia così la vicenda di un uomo fuori dal comune, che è allo stesso tempo una grande guida spirituale e la suprema autorità dei tibetani: dall'educazione a Lhasa dove gli viene conferito il titolo accademico più importante, il "Geshe Lharampa", all'assunzione anzitempo, nel 1950, della carica di capo di Stato del Tibet in seguito all'occupazione cinese delle regioni dell'Amdo e del Kham; dai difficili rapporti con Mao Zedong al fallimento della rivolta popolare contro gli invasori e alla conseguente fuga, nel 1959, a Dharamsala, in India, dove risiede tuttora con il governo tibetano in esilio. Da quel momento, Tenzin Gyatso è diventato il primo Dalai Lama a viaggiare in ogni angolo del mondo, per promuovere la causa del suo popolo e soprattutto per far conoscere i principi del buddhismo. I suoi appelli per una soluzione della questione del Tibet, sostenuti da una indomita forza morale e dall'insistito richiamo a una resistenza non armata, gli sono valsi, nel 1989, il premio Nobel per la Pace.
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Alcune pagine
Un Dalai Lama muore
«Sono davvero vecchio ormai, e desidererei ritirarmi dalle responsabilità che la guida spirituale e terrena del paese comporta. Vorrei tanto dedicare il tempo che ancora mi rimane alla meditazione e alla riflessione sulla mia prossima vita. Questo lusso, però, non sembra essermi concesso.». In realtà Thubten Gyatso (1876-1933), XIII Dalai Lama, con i suoi 56 anni non era affatto «davvero vecchio» come diceva di essere. Con grande stima il viceré dell’India, Lord Curzon, osservò come con lui, per la prima volta dopo quasi un secolo, il Tibet fosse governato da un Dalai Lama «che non era né un bambino né una marionetta». Si trattava infatti di un uomo silenzioso e dotato di una grande forza di volontà, di un monaco e sovrano la cui autorità personale è paragonabile solo a quella del V Dalai Lama. Gli anni turbolenti della sua reggenza avrebbero tuttavia lasciato degli strascichi dietro di sé. Il «Grande Tredicesimo», così chiamato grazie ai suoi meriti, abbandonò infatti per ben due volte il Tibet da esiliato: la prima volta, a fronte dell’invasione inglese, chiese asilo in Cina e in Mongolia; la seconda volta si rivolse invece all’India britannica, in seguito all’occupazione cinese. Ma due anni dopo la caduta, in Cina, dell’ultimo imperatore manciù, egli tornò finalmente in trionfo a Lhasa, e dal Potala, sede tradizionale del Dalai Lama, il 13 febbraio 1913 proclamò l’indipendenza del Tibet. «Grazie alla sua provvidenziale attività il popolo tibetano poté godere di un lungo periodo di pace e di benessere», afferma anche il XIV Dalai Lama. In effetti il Grande Tredicesimo guidò ancora la storia del suo paese per vent’anni, durante i quali cercò con una certa urgenza, e incontrando per giunta la resistenza di un clero reazionario, di fare in modo che venissero approvate le riforme necessarie a una cauta entrata del Tibet nella modernità. Ma il fallimento di alcuni suoi sforzi, in particolare di quelli riguardanti un’efficace modernizzazione dell’esercito, logorarono il Grande Tredicesimo, che di conseguenza si stancò di regnare desiderando più tempo da dedicare alle proprie pratiche spirituali. Inoltre, egli era soggetto a dei ricorrenti attacchi di febbre. Nel dicembre del 1933, lo colse un attacco molto più violento di quelli subiti fino a quel momento. Giorno e notte i monaci pregarono per la sua guarigione, finché, la mattina del 17 dicembre 1933, venne chiamato in aiuto l’oracolo di Stato di Nechung. Il monaco che fungeva da medium nei confronti della divinità protettrice Dorje Drakden cadde in trance; quest’ultima rivelò, per mezzo della sua bocca, la medicina che occorreva procurarsi. Venne così preparata la pozione in grado di «spegnere la febbre di 17 eroi» e la si somministrò al malato, che vi si oppose. Le sue condizioni peggiorarono però tanto rapidamente, che verso mezzogiorno egli giaceva privo di coscienza. L’oracolo e altri monaci influenti lo implorarono affinché non lasciasse ancora il proprio corpo, o, nel caso avesse già deciso di morire, perché tornasse il più presto possibile. Egli aprì quindi gli occhi ancora una volta, ma non poté pronunciare una sola parola. E alla sera, proprio nel momento in cui il sole cominciava a tramontare, il XIII Dalai Lama, Thubten Gyatso, spirò. Sul Tibet calò la notte. Dai chiostri riecheggiava il suono cupo dei tamburi, sui tetti bruciavano piccole torce luminose. Gli uomini smisero di truccarsi e deposero le loro vesti colorate, dando così inizio a un periodo di lutto lungo 49 giorni. Tuttavia la profonda tristezza da cui è sopraffatto il Tibet alla morte di un Dalai Lama, viene attenuata dalla consapevolezza che in verità il più grande protettore del paese non se n’è andato per sempre. Nello stesso modo va interpretata la preghiera che i monaci rivolsero al XIII Dalai Lama in punto di morte, e con cui gli chiesero di fare presto ritorno. «Spirito e corpo infatti si dividono, ma, mentre quest’ultimo si disfa e si dissolve, nel buddhismo si crede in una sorta di continuità dello spirito.». Dopo un certo tempo, questo «flusso di coscienza» del XIII Dalai Lama si trasferirà così a un embrione, nascerà un bambino e il Tibet avrà un nuovo sovrano: il suo XIV Dalai Lama. Proprio quest’ultimo ha voluto spiegare come, nonostante il padre e la madre costituiscano senza alcun dubbio la causa sostanziale del corpo fisico del bambino, la sua coscienza, il suo spirito, non abbia in verità con tali genitori nulla in comune. «Esso non costituisce né il frutto di una componente del loro corpo, né il risultato di un elemento della loro coscienza, dal momento che la vera fonte della coscienza di questa nuova vita è costituita in realtà dalla coscienza di una vita precedente.» Secondo il pensiero buddhista, ogni uomo è infatti soggetto a tale legge della rinascita: in questo modo, le circostanze della vita successiva vengono determinate dal tipo di karma – termine che significa letteralmente «azione» – accumulato, a volte buono e altre volte cattivo, nella vita precedente. E l’azione del karma è tanto poco modificabile quanto l’influenza di una legge naturale. L’idea che un uomo spiritualmente evoluto possa determinare attivamente non solo il momento della sua morte, ma addirittura le circostanze della propria rinascita, è tuttavia una peculiarità che contraddistingue esclusivamente il buddhismo di matrice tibetana. Si ha insomma la certezza che, se anche costui tornasse nelle vesti di un bambino, grazie ad alcune prove lo si potrebbe identificare con la reincarnazione dell’estinto già all’età di tre anni. In Tibet, un uomo così rinato viene chiamato tulku, ovvero «corpo della trasformazione», mentre l’equivalente cinese è più vicino al significato di «buddha vivente». E poiché in Tibet tutte le guide spirituali e i maestri religiosi vengono inoltre chiamati «lama», termine corrispondente alla parola indiana «guru», ne consegue che ogni tulku debba essere anche lama, mentre non tutti i lama devono necessariamente essere dei tulku reincarnati. Per i fedeli tibetani, colui che porta il titolo di Dalai Lama rappresenta non soltanto qualcosa più di un uomo, ma persino qualcosa di più della semplice reincarnazione del suo predecessore. Si palesa in lui, infatti, una manifestazione terrena del bodhisattva trascendente della compassione chiamato Chenrezig, protettore della terra innevata del Tibet. «Una tale manifestazione sacra è in grado di realizzare […] opere caritatevoli – come, per esempio, l’impegno che comporta la carica di maestro religioso – in misura ben superiore a quanto le proprie capacità naturali consentirebbero.». E mentre i credenti non nutrono alcun dubbio sul fatto che egli sia il Chenrezig fattosi uomo, il Dalai Lama preferisce parlare di «manifestazione» piuttosto che di «incarnazione», cosa che evidenzia come egli si consideri in realtà piuttosto una sorta di raffigurazione del caritatevole Chenrezig. «Quest’ultimo infatti non è un vero e proprio individuo.». Si potrebbe forse dire che il misericordioso bodhisattva Chenrezig si manifesta nel Dalai Lama proprio come la luna, che «pur continuando a descrivere imperturbabile la propria orbita nel cielo», può specchiarsi molte volte nell’acqua calma dei laghi e dei mari, riflettendo così sulla terra, senza mai lasciare il cielo, una chiara immagine di sé. Chenrezig, «colui che guarda con occhi chiari», vide il dolore del mondo e volle renderlo più sopportabile. Per far questo, scendendo dalle sfere trascendenti sotto forma di un bianco raggio di luce, egli giunse sulla terra un tempo per migliorare le condizioni di tutti gli esseri viventi – o perlomeno così tramanda la leggenda. In una delle sue numerose incarnazioni adottò quindi le sembianze di una scimmia e visse a lungo, meditando, sul grande tetto del mondo. Secondo un mito tibetano della creazione, in questo desolato deserto roccioso dimorava oltre a lui soltanto una gigantessa selvaggia, che prese a seguirlo ostinatamente. Alla fine la scimmia provò pietà per la solitaria – e lasciva – gigantessa, e concepì con lei sei figli: i primi tibetani. Di conseguenza, il caritatevole Chenrezig non è soltanto un patrono protettore, ma costituisce in realtà anche il vero e proprio progenitore dei tibetani. Il fatto che la forma terrena in cui il bodhisattva Chenrezig si è fino a oggi manifestato ai tibetani sia sempre quella del Dalai Lama in carica, ha le sue origini all’epoca del V Dalai Lama, Lobsang Gyatso (1617-1682), che sostenne quest’idea con una certa insistenza. Infatti, una volta che il Dalai Lama è stato riconosciuto ufficialmente, niente distoglie più il popolo dalla dedizione che prova nei suoi confronti, né dalla convinzione di aver posto sul Trono dei Leoni, a Lhasa, il vero tulku, il Chenrezig, addirittura la personificazione del Tibet stesso. È spontaneo pensare alla pesantissima responsabilità che attende il prescelto, mentre a quest’ultimo, sbigottito, non resta che sperare di possedere anch’egli una sicurezza incrollabile e di essere davvero colui al quale spetta il titolo onorifico di «Dalai Lama». Il primo naturale presupposto è quindi costituito dalla credenza nella rinascita. Per l’attuale XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, non è del resto possibile «escludere la possibilità di vite precedenti o future […] basandosi soltanto sul fatto che esse non possano essere direttamente esperibili». Sarebbe infatti ugualmente precipitoso allontanare da sé «qualcosa considerandolo non esistente soltanto perché non lo si è mai visto con i propri occhi». Del fatto che in linea di principio la rinascita sia una realtà dovuta, per così dire, alle leggi della natura, Tenzin Gyatso è assolutamente certo. Tuttavia, egli sostiene diverse possibili interpretazioni di tale concetto. Con quest’ultimo, a differenza di quanto si intende con l’idea della «trasmigrazione delle anime», non si dovrebbe infatti intendere precisamente un ritorno della stessa persona, «poiché in realtà il successore dell’esistenza antecedente sarà qualcun altro. Qualcuno che prosegua il compito non portato a termine durante la precedente reincarnazione». Egli stesso percepisce del resto, da alcuni indizi, l’esistenza di «un particolare rapporto, dovuto alla reincarnazione, con il V e con il XIII Dalai Lama: nei miei sogni ho incontrato diverse volte il XIII Dalai Lama», e anche altri segni rivelano un legame senza dubbio fuori dal comune con il suo predecessore. Non crede, tuttavia, che ciò presupponga necessariamente l’esistenza di una perfetta identità con la figura dell’uomo che occupava prima di lui la medesima carica.
Dunque, quando mi si chiede se sono una reincarnazione, rispondo di sì, e che questo è ciò in cui credo e di cui sono convinto: di essere, cioè, una sorta di reincarnazione del Dalai Lama. Ma quando mi si domanda se sono la medesima persona che era stata il XIII Dalai Lama, ammetto di nutrire, in proposito, dei dubbi, e di non saperlo con certezza.
In questo caso, ciò significa che quanto Tenzin Gyatso ricorda della vita del precedente Dalai Lama non è assolutamente paragonabile «ai ricordi della sua stessa vita», potendo egli accedere ai primi soltanto nel corso delle sue meditazioni più profonde, e in misura assai limitata. Questo perché «le nuove impressioni, legate al mio corpo attuale, sono più forti, e il passato resta tanto confuso, e così in secondo piano, che non me ne posso ricordare se non per mezzo di una faticosa concentrazione». Tuttavia, egli nutre l’inequivocabile sensazione di aver raccolto il testimone che già portarono nelle loro mani il Grande Quinto e il Grande Tredicesimo, entrambi portatori di un’influenza particolarmente positiva, come nessun altro Dalai Lama aveva mai fatto prima, non solo in ambito spirituale ma anche per quanto riguarda le vicende politiche del Tibet. Si ipotizzava inoltre che il XIII Dalai Lama possedesse addirittura un senso di responsabilità politica tale da superare i limiti della morte (temporanea): non avrebbe infatti potuto morire tanto prematuramente proprio perché consapevole dei tempi difficili che attendevano il Tibet? E in modo tale da affrontare questo futuro incerto solo dopo essersi reincarnato, dunque con la forza rinvigorita di una nuova gioventù? La cosa certa è che egli ha messo in guardia, addirittura profeticamente, il popolo tibetano e il Dalai Lama che sarebbe stato suo successore, avvisandoli del grande pericolo che secondo lui sarebbe stato irradiato «dai barbari comunisti rossi» provenienti dalla Cina:
Potrebbe accadere che qui, nel cuore del Tibet, sia la religione che l’amministrazione secolare vengano attaccate, da fuori e da dentro. […] Per quanto riguarda i chiostri e i monaci, se ciò dovesse verificarsi le loro terre e ogni altra loro proprietà sarebbero distrutte. […] I funzionari dello Stato, sia quelli spirituali che quelli secolari, verrebbero espropriati dei loro terreni e si vedrebbero confiscare anche le rimanenti proprietà, mentre loro stessi sarebbero trasformati in servi dei loro nemici o mandati a girovagare nelle campagne come dei mendicanti. Tutte le creature cadrebbero in un’estrema miseria e in un terrore tale da sopraffarli, e, nel dolore, i giorni e le notti trascorrerebbero lenti.
Non certo una bella prospettiva per il suo successore. Tanto che forse è da ritenersi persino una piccola fortuna il fatto che questi non riesca a ricordare nei dettagli la vita e le visioni del XIII Dalai Lama. In questo modo gli furono concessi, almeno fino al momento in cui non venne prescelto, i primi tre anni di vita spensierati, durante i quali egli si comportò come ogni bambino normale, forse solo un po’ testardo; e come tale venne anche trattato. In seguito iniziò la sua vita in quanto istituzione: una vita in cui la persona privata rimase completamente in ombra, oscurata dalla carica, e che poté poi venire presa in considerazione solo in quanto profondamente intrecciata al destino e alla storia del Tibet. E se Tenzin Gyatso oggi afferma costantemente di essere «solo un semplice monaco», ciò dovrebbe forse essere preso, più che per una modesta descrizione del modo di vivere del più famoso di tutti i buddhisti, come una delle sporadiche osservazioni, di natura privata, a proposito del suo vero ideale di vita: semplicemente «non dover essere nient’altro che un semplice monaco». Proprio quello che a un Dalai Lama non viene concesso. |