Mosè a Timbuctù
Nel cuore del Sahara più profondo, terra di “uomini blu”– i tuareg ancora in lotta con i popoli vicini e soprattutto con i governi degli stati a cui “appartengono”, per preservare la loro complessa identità – l’incontro casuale tra un migrante africano e un viaggiatore europeo, raccontato dai due protagonisti, porta alla scoperta di un misterioso mondo ebraico, radicato nella storia del continente nero, e dei suoi legami con l’antico Medio Oriente e l’Europa. Un intreccio di narrazioni che conducono il lettore fino a Timbuctù, la misteriosa città sahariana del Mali. Dalle sue straordinarie biblioteche, rimaste per anni nascoste al mondo, e dalle rivelazioni dei suoi abitanti, emerge un affascinante intreccio di storie, di identità e di culture, che lanciano una sfida al mondo moderno.
|
SONO NERO
La mia fuga coincise con il compimento dei miei diciotto anni. Ero riuscito a studiare e avevo imparato molto della nostra storia e anche del Corano. Erano gli anni prima della grande siccità. Il Mali era uscito dal colonialismo da una decina d’anni ed ero angosciato dalle incertezze tipiche della pubertà. I griot, che qualcuno cominciava già a chiamare con i loro nomi originari, «finah» per quelli che raccontavano la storia, «jali» per i poeti-musicisti, depositari e propagandisti delle conquiste moderne del nostro eroe nazionale, l’uomo della rivoluzione anti-coloniale e del nuovo Mali, Modibo Keita, furono costretti al silenzio quando l’uomo in cui credevamo venne deposto dai militari e, in catene, spedito a nord di Timbuctù, in pieno deserto, dove le antiche miniere di sale di Taudenni, trasformate in prigione, facevano scempio di corpi e menti. C’era, nonostante tutto, ancora speranza nel futuro, ma lavoro niente e così decisi di affrontare l’avventura, o meglio di infilarmi in quella corrente della storia che si chiama emigrazione e che trascina le genti verso sponde dove, per anni o per sempre, rischiano di sentirsi totalmente estranei o dove, perché anche questa è un’importante realtà, si amalgamano con le popolazioni locali alle quali portano in dote esperienze, cultura e tradizioni sovente complementari. Non fu difficile arrivare da Timbuctù fino a Gao, anche se la pista era irta di ostacoli, sabbie mobili nelle quali affondano le ruote delle macchine, spine, animali sonnacchiosi accasciati in mezzo alla via. Ancora oggi è un percorso non facile. Ebbi la fortuna di ottenere un passaggio su un camion. Io e altre venti persone, tutte arrampicate come mosche su una montagna di fetide pelli instabili e scomode che il mercante nigeriano aveva scambiato con stoffe e altri prodotti portati dal sud. Gao, comunque, in qualche modo era ancora casa, stessa nazione, stesse genti, stesso passato. L’ignoto, quello vero, mi attendeva oltre. Fare l’autostop per attraversare il Sahara, quello spazio sterminato che conoscevo appena per essere nato ai suoi margini estremi, costituiva una sfida. E dopo? Riuscire a passare dall’Algeria in Europa e imboccare la strada giusta per il mio futuro, o parte di esso. Avevo scelto come meta la Francia dove viveva già un mio parente e perché tra le lingue che parlo c’è, ovviamente, anche il francese, dono, uno dei pochi, dei colonialisti. Eravamo agli inizi degli anni Settanta, l’emigrazione africana verso l’Europa stava appena incominciando e se fossi riuscito ad arrivare a Parigi mi avevano convinto che trovare un’occupazione non sarebbe stato troppo arduo e forse, con un po’ di fortuna, sarei stato in grado anche di proseguire gli studi. |