A un passo dalla forca
La conquista italiana della "quarta sponda" è costata alle popolazioni della Libia, nell'arco di vent'anni, centomila morti. Un numero enorme di vittime, se si pensa che il Paese contava, al momento dell'invasione, appena ottocentomila abitanti. Dunque un libico su otto ha perso la vita - nei combattimenti, nei lager infernali della Sirtica, nei penitenziari italiani, o appeso alla forca - nel tentativo disperato di difendere la propria patria. Sinora si conosceva il dramma del popolo libico essenzialmente da libri redatti in base a documenti di fonte italiana ed europea, a volte incompleti e spesso poco imparziali. Nel 2006 Angelo Del Boca ha avuto l'opportunità di poter consultare un documento di cui si ignorava l'esistenza: le memorie di Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogebàn, uno dei più irriducibili oppositori della dominazione italiana. A uno storico italiano si prospettava così l'occasione di studiare il pensiero, i sentimenti, le strategie politiche e le trame degli "altri" e, nello stesso tempo, di mettere a confronto le due versioni dei fatti.
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La recensione de L'Indice La storia dell'espansione coloniale porta talora con sé le stimmate, lasciatele in eredità dalla vecchia storia coloniale (quella degli storici coloniali al tempo degli imperi europei d'oltremare), di essere solo una narrazione di eventi e di essere poco problematica. Il più recente volume di Angelo Del Boca, il più noto fra gli storici italiani che del colonialismo si sono occupati, offre l'occasione per ridimensionare tale accusa. Questo suo libro narra gli ultimi anni della vita e della storia di Mohamed Fekini, notabile e combattente libico del periodo coloniale. A prima vista sembrerebbe "solo" una biografia, un racconto, uno fra i tanti possibili di resistenti anticoloniali: in realtà è una storia che solleva – più o meno esplicitamente – alcuni grandi problemi della storia della Libia e, più in generale, dell'Africa. Fra questi: Quali caratteri storici ebbe la resistenza al colonialismo? Che ruolo ebbero in essa gli aggregati etnici, le popolazioni, le cabile o (come avrebbero detto gli storici coloniali del passato) le "tribù"? Fu essa una resistenza primaria e "antica" o nazionale e "moderna"? E in che misura la resistenza anticoloniale risentì dell'azione di singole, spiccate personalità? Il volume dello storico novarese incrocia tutti questi importanti interrogativi. Ci si potrebbe intanto però chiedere: Del Boca studioso del colonialismo italiano che scrive di storia libica, cioè africana? Non deve stupire: dopo aver scritto la storia degli italiani in Africa (il primo dei suoi sei volumi su Africa orientale e Libia era del 1976, l'ultimo del 1988), ha firmato altre biografie di grandi antagonisti del colonialismo: si ricordino in tal senso le biografie del Negus Neghesti d'Etiopia Haile Selassie (1995) e del leader libico Gheddafi (1998). Senza essere storico dell'Africa, ma disegnando biografie a tutto tondo di africani di grande rilievo storico, oltre a ridare agli africani (almeno ad alcuni di essi) quella dignità di storia che gli storici coloniali del passato in genere negavano ai "non bianchi", Del Boca andava controllando, confermando, "provando" la sua opera maggiore, quella appunto degli italiani in Africa. A un passo dalla forca non è tuttavia solo una ripetizione di quest'operazione. La narrazione, questa volta, si avvale infatti di un documento assolutamente eccezionale, di cui non aveva disposto nei casi precedenti, quando pure si era basato su uno spoglio sistematico della bibliografia italiana e internazionale, sulla stampa di settore e sugli archivi italiani (quando possibile). Questa volta, per narrare la vita di Mohamed Fekini, Del Boca ha infatti potuto avvalersi di una documentazione straordinaria: una memoria inedita, lunga alcune centinaia di pagine, dettata dallo stesso Mohamed e con cura conservata – assieme a lettere, fotografie e carte di ogni tipo – dalla famiglia e in particolare dal nipote, l'avvocato Anwar Fekini. Quanto questo ritrovamento archivistico sia straordinario è facilmente intuibile per realtà dove, persino fra i notabili, prevale la cultura orale, e dove gli archivi nazionali sono recenti e per la parte antica dipendono dalle carte dell'occupante coloniale. Il ritrovamento è ancora più rilevante nel caso specifico di Mohamed Fekini, quando si ha cioè a che fare con uno dei notabili principali delle cabile libiche travolte dall'occupazione e dalla repressione coloniali italiane, costretto alla fuga e all'esilio da Badoglio e Graziani negli anni della "riconquista" fascista e da allora non più tornato nel proprio paese di nascita (è sepolto in Tunisia). Sulla scorta di un documento quasi unico, Del Boca scrive la storia di Fekini al suo consueto largo pubblico: la storia di un combattente della resistenza libica, prima lusingato, poi avversato e infine combattuto duramente dagli italiani (prima della sua uscita dalla Libia, nel 1930, una taglia era stata posta sulla sua testa). Come pochi altri notabili libici, Fekini maturò un'esperienza complessa. Prima del 1911 uno dei rappresentanti della Tripolitania a Costantinopoli, Fekini aveva già sessantuno anni ed era uno dei capi riconosciuti dei Rogeban, quando gli italiani presero Tripoli. Fu animatore della prima resistenza sia nel 1911-12 sia nel 1915, avversario dei berberi, oscillante nei confronti della Senussia, ma poi a essa avvicinatosi appunto dal 1915, quando era nominato in pectore governatore di Tripoli se la grande rivolta araba avesse vinto: cosa che non avvenne. Fu nominato ispettore generale e poi prefetto per il Fezzan per Suleiman el-Baruni e la sua Repubblica tripolina nel 1917. Apprezzò la svolta italiana a favore di un compromesso, la cosiddetta politica degli Statuti, per la quale si operò e si espose anche personalmente, nel periodo intercorso fra la "Commissione del Garian" del 1920 (che era invece favorevole a un emirato) e il convegno della Sirte del 1922. Ma sotto il ministro liberale Amendola l'avvio di una "politica di riconquista" contraria a ogni compromesso e soprattutto la sua conduzione con mano di ferro da parte del governatore Volpi, sotto i primi governi Mussolini, resero impossibile ogni mediazione. Fekini, fra gli altri notabili, ne pagò le conseguenze: ebbe i suoi beni confiscati nel 1924, dovette riparare nel Fezzan, dove gli viene data la caccia (a quel punto non era più un capo "territoriale", ma in fuga per la salvezza con i suoi). Inseguito fra l'altro da Graziani, e dalla sua mano pesante, Fekini nel 1930 passò il confine emigrando prima in Algeria poi in Tunisia, dove diventò – secondo le sue memorie – segretario generale dell'alleanza dei mugiahidin del Nordafrica. Finirà la sua vita in Tunisia, a Gabes, ricollegandosi alla Senussia (1939) e agli inglesi, che ambedue però faranno poco per riaverlo nella sua propria patria, anche se ormai gli italiani non la comandavano più dai primi del 1943. Morì nel 1950, un anno e mezzo dopo la raggiunta indipendenza della Libia e un anno e mezzo prima della definitiva installazione dell'autonomo regno senussita. Ma, come dicevamo, non si legga "ingenuamente" questa biografia. Essa in realtà offre materiale per trovare risposte agli interrogativi più ampi che abbiamo sopra ricordato. È uno studio che può essere letto assai utilmente in un'ottica problematica. Raccontando la storia di Fekini, il volume lascia infatti intravedere almeno quella della sua cabila e allude a quella della resistenza tripolitana (quella cirenaica seguì strade diverse). La biografia costituisce d'altro canto il primo necessario passo per comprendere quale ruolo Fekini abbia avuto fra i libici, quale nel movimento libico di resistenza, quale abbiano avuto i Rogeban, quando e se l'uno o gli altri si siano posti il problema di costruire una nazione, o se invece abbiano preferito a essa la prospettiva della "resistenza primaria" all'occupante, quella religiosa-senussita, quella panaraba ecc. Si tratta insomma di un tassello importante in un mosaico ancora da ricostruire, un tassello necessario tanto per gli studi sul colonialismo italiano quanto per quelli sulla Libia. È auspicabile, anche se sarà difficile, che si possa fare altrettanto sia per gli altri maggiori oppositori al colonialismo italiano sia per i notabili invece più inclini alla collaborazione, nonché con le cabile degli uni e degli altri: per quale fra queste realtà è infatti disponibile l'eccezionale documentazione di cui ha potuto avvalersi Del Boca per Fekini? Certo è che solo da questo complesso lavoro potrà uscire una storia della Libia che ci dica veramente come, da quando e per opera di chi essa è diventata una nazione. Si tratta di problemi più grandi, fra cui Del Boca in queste pagine non si avanza. La sua è una narrazione per il largo pubblico, mirante a raccontare una storia non conosciuta all'interno di un passato più grande – quello coloniale nazionale – anch'esso assai poco conosciuto o ricordato. (Dal canto proprio lo studioso si augura che prima o poi qualche istituto sostenga un'altra operazione certo meno attraente per il largo pubblico, ma di grande interesse per gli specialisti: un'edizione bilingue e filologicamente curata delle memorie di Fekini). Nel frattempo, con una narrazione piana, semplicemente, Del Boca ha raggiunto due obiettivi: ricordare le radici ultime del colonialismo, forma radicale di disuguaglianza fra individui; testimoniare la parzialità dell'opera antica degli storici coloniali, che nelle loro ricostruzioni non davano dignità agli africani, agli asiatici ecc. Se fatta in questa prospettiva, scrivere la storia dell'espansione coloniale contribuisce davvero a "provincializzare l'Europa". Nicola Labanca |