Intervista ad Alessandro Simonicca di Angelo Romano D: Ci può fare una lettura critica del testo “Eccessi di Cultura” scritto da Marco Aime?
R: È un testo che presenta caratteristiche molto interessanti sia per scrittura che per intenzioni. Direi che in Italia non si scrive molto di antropologia del quotidiano o per lo meno quello che passano i media non è molto accattivante. Si guardi la televisione o si guardino i programmi… la presenza di antropologi è abbastanza scarsa e laddove vi è, è discutibile, sia a livello di contenuti – non in tutti i casi ma in alcuni casi sì - sia di finalità - che per l’antropologo sono abbastanza diverse dalla sua formazione - che una informazione abbastanza larga vuole raggiungere.
Quindi, ben venga un testo di questo tipo che, nel genere, si avvicina ai molti testi di Marc Augè, il quale ritiene addirittura che l’antropologo possa fare antropologia del quotidiano, dell’attuale, dell’istantaneo adoperando il suo corpo sensoriale e la sua mente concettuale per leggere lo spazio intorno a sé e riorganizzarlo secondo categorie antropologiche; senza i classici momenti dell’antropologia, che sono lo spazio etnografico, la documentazione, l’intervista, l’elaborazione, la comparazione… tutti passaggi fondamentali che in questo tipo di antropologia dell’attualità sono assenti, se addirittura si pensa – e secondo me si sbaglia spesso – che l’antropologo possa essere il veicolo che collega il suo corpo alla sensibilità del mondo esterno e possa rispondere ai problemi dell’attualità. Penso tutto sommato che un pò di strumentazione tra il sé dell’antropologo, l’alterità e lo spazio debba rimanere, non per cadere in uno oggettivismo da paradigmi classici, però esiste un problema di oggettivazione nell’antropologia e di conoscenza al quale non si può rinunciare.
Aime naturalmente non ha questo tipo di impostazione di antropologia della quotidianità; la sua è una lettura della quotidianità e questo è un punto effettivamente importante. Molte volte alcuni amici mi dicono: “Ma perché non scrivi di cose contemporanee. Questo mondo è pieno di questioni antropologiche, conflitti, discussioni, lacerazioni, ultimamente sempre più guerre…”.
Personalmente io ho un po’ di riserve, perché ritengo che spesso parlare da antropologo dell’attualità fa correre il rischio di essere a favore o a vantaggio di una parte piuttosto che di un’altra. Entrando in una discussione complessiva di un tema attuale, si corre il rischio di non offrire solo un punto di vista antropologico, quanto anche di schierarsi a favore di un progetto politico oppure di un programma di azione a favore dell’uno o dell’altro.
Tanto più che sul problema della cultura tutti quanti oggi stanno un pò attenti, traggono da esso spazio di legittimazione.
Questo è un tema che Aime affronta bene: ad esempio, quando afferma che la tematica del crocifisso oppure del velo o dell’immigrato hanno a che fare con la presenza di una forte alterità nel nostro territorio e che quindi sono un momento importante della nostra vita; e che gli attori sociali ed economici non possono non essere interessati a questa alterità e che questo interesse non può non trasformarsi anche in una risorsa sia ideologica che intellettuale all’interno di un discorso proprio di gestione. Direi che Aime mette in luce un problema vivo, quello che Hannerz chiama l’uso indistinto del termine cultura, direi la categorizzazione indistinta del termine cultura, cioè il fatto che ogni fenomeno che avviene nel mondo d’oggi, essendo un mondo globalizzato, è ipso facto un oggetto, un prodotto che ibrida la sua composizione. E questo suo carattere ibrido richiama a problemi di significato inter- o multi- culturale… qui c’è una grossa confusione… e quindi diventa parte di una discussione comune.
Da questo punto di vista la presenza delle tematiche dell’identità e della cultura nella nostra quotidianità è un dato di fatto. Quali sono le due possibili prospettive intellettuali di comprensione del fenomeno? quello che lo stesso Aime chiama fondamentalismo culturale, in maniera un po’ forte, richiamando una nota nel testo di Verena Stolcke, e l’altro, l’approccio – lui non si autodefinisce come tale, però – critico sociale.
Nel primo approccio Aime vede nella lettura dei fenomeni identitari attuali la presenza dell’idea che ciò che accade, accade perché le persone agiscono in base a un loro mondo di valori e di sentimenti. E che questo mondo di valori e di sentimenti fondi una configurazione unitaria, alias culture, che è destinata a confliggere con altri mondi egualmente organici e organizzati. E qui cita le tesi di Huntington dello scontro delle culture come caratteristiche del mondo odierno. Il mondo odierno sarebbe un mondo costitutivamente conflittuale perché i valori che ispirano le azioni dei soggetti sono competitivi. È questa una tesi sulla quale Aime spende poche parole per eliminarla.
Viceversa lui adotta una teoria critico-sociale e afferma che in realtà il mondo culturale, l’insieme di valori e sentimenti che un gruppo ha o ritiene di avere, non sono che delle forme di razionalizzazione, a livello individuale o di gruppo, sulle quali soggetti politici o economici fanno leva per manipolare a livello pubblico immagini o origini dei soggetti per finalità politiche o economiche.
Da questo punto di vista, etnicizzare una realtà oppure ritenere che un oggetto sia un oggetto culturale entra a far parte di un’azione politica complessiva finalizzata a un’egemonia. Questa è un po’ la teoria che lui segue. E qui si richiama all’identità veneta, alla presunta filiazione da inesistenti mondi culturali celti come ricostruzione a fini per così dire manipolativi, politico-ideologico-manipolativi per offrire all’opinione pubblica argomenti a favore o contro un certo tipo di gestione politica dell’immigrazione o dei problemi interculturali o multiculturali.
Io ritengo che qui l’autore sia un po’ semplicistico: all’interno del fondamentalismo culturale, secondo me, ci sono una serie di sfumature, una serie di posizioni di tutto rispetto, che probabilmente non andrebbero ricondotte ad un’unica categoria. Cosa voglio dire. Gli esempi forti sul crocifisso o sul velo sono esemplificativi di una conflittualità fra culture e su questo possiamo anche ragionare. Però Aime parte da un paradigma di attore razionale e individuale un po’ troppo forte, retaggio dell’impostazione dei suoi studi. Se voi andate a vedere le cose che ha scritto sul mercato d’Africa, Aime non lavora con la teoria della parentela o della comunità o di cultura come insieme organico, ma lavora con concetti tipo individuo, azione, agency, con concetti di individuo capace di articolare un’azione all’interno di un progetto finalizzato a una meta. E quando analizza alcuni dati dell’Africa subsahariana, lui persegue questa linea del concetto di strategia, del concetto di finalità e riflette sulle azioni dei soggetti, come azioni di soggetti che costruiscono una rete – la rete sociale - lungo cui si veicolano sentimenti e valori, ma sulla cui riducibilità all’azione dei singoli lui è sempre netto. Anzi, rifiuta sempre teorie di tipo reificazionista, della cultura come cosa deificata. Parte da un modello di lettura della realtà fortemente individuale o per lo meno che spinge sull’attore sociale.
Ecco… da questo punto di vista, questa partenza forte trova nel concetto di fondamentalismo culturale un bersaglio polemico quanto mai forte ma anche troppo facile. Ci sono altri modi – mi chiedo - di lavorare sul concetto di cultura dell’alterità interna – cioè da noi - senza cadere in una concezione da fondamentalismo culturale?
Qui bisogna ragionare… prendiamo ad esempio la posizione sia di Appadurai che di Geertz. Vediamo che abbiamo a che fare con un altro tipo di ragionamento: si parte dal fatto che le culture che entrano nei nostri mondi sono culture che sì, rendono ibride le situazioni, ma anche parcellizzano e frammentano i mondi perché frammentano stati. O per lo meno producono delle incrinature su quelli che sono i rapporti tra Stato e società civile quali noi li conosciamo. E quindi producono frizioni o isole o arcipelaghi, in ogni caso producono un mondo, come dice Geertz, molto più frammentato, in cui non c’è più lo Stato ma c’è il paese, in cui hanno la meglio più le nuove comunità regionali che le vecchie dimensioni statali.
Questo è vero. Lo stesso Aime non può non dirlo, come quando ad esempio parla del Veneto: il Veneto è una regione, è un’identità, non è uno Stato.
Mi sembra che l’effetto di culture altre che si interrano nel nostro tessuto storico, producono determinati effetti e al tempo stesso producono nuove configurazioni regionali, che probabilmente sono il prodotto di altri flussi economici (il problema della flessibilità del mercato, il rapporto con l’est europeo): ci sono, in altre parole, altre variabili che producono delle nuove unità regionali o delle nuove aree.
Non è solo un problema culturale quello che produce una regione. Però, una regione o un’area hanno evidentemente bisogno di ricorrere a forme di legittimazione ideologica o culturale per valorizzarsi. Quindi qui l’identità è una forma di risorsa legittimata, è un processo, non è un’opzione, non è una formulazione di un desiderio oppure un programma politico a venire. Sono processi reali. Nel nord-est d’Italia si sono organizzate nuove configurazioni regionali. Ma io direi di più: si sono organizzate nuove aree all’interno del sud d’Europa, del centro-sud… da Monaco a Venezia, da Monaco a Rimini, cioè la Baviera emiliana e così via… evidentemente c’è un problema di flusso economico, c’è un problema di flusso culturale o di flusso d’alterità, ma sono processi reali e oggettivi, rispetto ai quali la manipolazione non è esterna al processo ma è parte costitutiva del processo stesso. Ed è di questo che bisogna rendere conto.
Per questo motivo noi antropologi siamo un po’ imbarazzati, perché da un lato non possiamo fare a meno del concetto di cultura e perché da meta-modello diventa risorsa reale di processi oggettivi.
Aime non coglie questo doppio momento - se volete il momento epistemologico e il momento reale. Un uso dell’antropologia come il suo implica anche chiarezza e consapevolezza su quali possano essere i suoi usi reali e non soltanto i suoi usi intellettuali. Uno deve essere cosciente dell’uso reale e dell’uso intellettuale che l’antropologia fa dell’attualità. Per questo è intricato intervenire oggi a livello antropologico, perché ognuno che parla d’antropologia immediatamente diventa risorsa ideologica per altri, perché la cultura, l’intercultura o la multicultura è parte del nostro mondo.
Se volessimo trarre le conclusioni dall’impostazione di Aime, sicuramente faremmo chiarezza su un sacco di mis-comprensioni, su un sacco di scemenze che vengono dette: come quando, ad esempio, si puntualizzano le false argomentazioni tramite cui i Veneti si dichiarano essere nipotini dei Celti, i falsi problemi rispetto al velo o il falso problema delle cosiddette culture forti che sono meno forti in patria e sono più forti qui da noi… perché in Africa le culture sono meno forti per certi aspetti come l’infibulazione e invece qui in Italia o altrove certe tradizioni e credenze sono più forti? Aime svela quello che potremmo definire il pasticcio etnologico, come lo chiama la Rivera. Egli svela molti di questi giochetti di basso conio. Però lo smascherare le motivazioni, le ragioni ecc. non elude il problema fondamentale che questi sono processi reali e che noi organizziamo il presente pensando al futuro per la cui costituzione ricorriamo alle risorse del passato. In questo gioco noi continuamente ripensiamo, rimuginiamo, rimastichiamo cose del passato che sono tali perché ci interessano per domani. Veramente la costruzione del futuro la troviamo nel passato e viceversa. Ed è un pasticcio.
D: In effetti questo tipo di pensiero lo abbiamo ritrovato nel cosiddetto “Pensiero Neo-Conservatore”. Recentemente c’è stato un intervento del Presidente del Senato Marcello Pera sui valori tradizionali dell’Occidente con richiami alla religione giudaico-cristiana e successivamente alla cultura romana come valori fondamentali della nostra cultura da esportare, dando per scontato che il centro fosse la cultura occidentale (si faceva il discorso della scienza: come la scienza tenda ad arrivare sempre agli stessi risultati o a ricercare gli stessi risultati) e non prendendo affatto in considerazione il rapporto con altri valori di altri posti. Proprio questo riferirsi al passato oltre a essere un pasticcio, ci sembra non abbia sempre delle inflessioni positive….
R: Sì, direi di più. Il caso di Pera è emblematico. È un pasticcio a livello mentale. Che sia un pasticcio a livello reale è un problema che io mi pongo spesso, è il modo attraverso cui il presente legittima il futuro ricorrendo al passato. Questo è un processo reale che troviamo in Italia, in Francia, in India. Probabilmente riguarda il concetto che noi abbiamo di progresso. Un concetto profondamente in crisi. Non abbiamo più l’idea della freccia del tempo o, per lo meno, ci si è un po’ annebbiata questa immagine. Forse come dice Bauman siamo la società dell’incertezza.
Una ricerca di sociologia qualitativa ha individuato come punto fondamentale tra i cosiddetti panici morali – come li chiamano i sociologi, ossia i rischi percepiti come peggiori – il rischio della sicurezza personale, della sicurezza corporea e della sicurezza casalinga.
Il luogo della quotidianità come il luogo più in crisi. O per lo meno il più soggetto a suscitare scenari di morte o di negatività. Questo immaginario di percezione di pericolo nell’abitare si inserisce abbastanza bene nelle strategie politiche che fanno leva su questo tipo di rischio culturale per innestare meccanismi o progetti di ordine forte o ordine pubblico di un certo tipo, di blocco dell’immigrazione e così via. Siamo nella società dell’incertezza e i problemi sono abbastanza complessi. Quindi deve esserci una certa cautela da parte dell’antropologo a lanciare parole che poi si trasformano in boomerang. Le nostre categorie, come abbiamo visto, possono produrre effetti terrificanti, se non controllate. È il futuro che ci spaventa e, all’interno di questo piano, all’interno di un futuro complicato, l’idea di un passato come risorsa da giocare oggi per bloccare un certo tipo di movimento in avanti è una strategia mentale e poi anche politico-ideologica spesso vincente anche a livello di elezioni o di convinzione dell’opinione pubblica.
A livello antropologico ci pone un problema, perché noi dobbiamo studiare sia i processi d’identificazione sia le manipolazioni ideologiche come forme di cultura. Ci obbliga a ragionare in maniera più lucida e a non pensare di poterci illuministicamente astrarre e decentrare rispetto ai conflitti, pensando di avere soluzioni o linee alternative o critiche alternative. Io sono molto cauto su queste cose. Se vogliamo ragionare fino in fondo secondo termini post-interpretativi, l’antropologo fa parte della cultura da cui deriva. Sarà una cultura ibridata ma ciò che lui dice probabilmente non può non subire il filtro dell’attualità, del suo tempo, insomma. E qui noi siamo un po’ in imbarazzo. C’è un imbarazzo, uno smarrimento su cosa dire.
La soluzione che dà Aime è pensare alle persone. C’è un bel libro, mis-conosciuto ai più, “Persone d’Africa”, che Aime riprende: è un volumetto curato da Pietro Clemente e Alberto Sobrero cinque o sei anni fa, quando avevano messo sù un osservatorio sull’immigrazione a Roma, la cattedra era a Villa Mirafiori. È un libro bello, secondo me (anche se alcune parti sono un po’ discutibili), perché ha un bel titolo, perché dice persone d’Africa. La soluzione che Aime dà a questo problema intricato di usare il concetto di cultura e al tempo stesso di vederselo trasformare in mano in maniera strana è che non sono le culture a incontrarsi ma sono le persone. Il che è vero. È una critica alla Hannerz… dell’attore sociale… che è bella, perché ci costringe a decostruire le nostre stesse categorie - cultura africana, cultura nigeriana, cultura del Madagascar, cultura beniniana… l’idea è: parcellizziamo ancora di più. Moltiplichiamo al massimo la nostra lente di ingrandimento per analizzare le persone come momenti sincretici di incontro di varie culture nei vari spazi. Eticamente è una bella idea, ed è quella per esempio del volume che vi citavo che ha fatto crescere molti dei vostri amici di qualche anno più avanti. Parlavi di persone perché parlare di persone voleva dire parlare di individui, ma che al tempo stesso significava parlare di cultura in pratica, perché nel concetto di persona ci deve essere l’individuo, ma c’è anche l’autorappresentazione che una persona fa di se stesso e anche, al tempo stesso, l’idea di cosa vuol dire essere uomo all’interno del gruppo di appartenenza. Questo doppio momento, quello dell’essere individuo e del pensare cosa significa essere uomo e vivere, determina chi siamo all’interno del nostro gruppo. E quindi io vedo in questa linea l’antropologo che con la lente di ingrandimento va dietro ogni immigrato a studiarlo, perché poi è questo un po’ il gioco. Come già sappiamo, le migrazioni e le culture sono movimenti, sono flussi che si sviluppano su reti. Se noi vogliamo studiare i Senegalesi, dobbiamo studiarli lungo la traiettoria classica, Roma, Rimini, Torino, coste del Tirreno. L’antropologo deve girare con la sua lente di ingrandimento e deve vedere le persone come sono sviluppate sul territorio. Dal punto di vista conoscitivo questa tesi ci soddisfa, perché capiamo che la persona è una sincresi complicata di tanti aspetti e che l’antropologo deve prima rendere conoscenza di… però se vediamo l’albero non vediamo la foresta.
Da questo punto di vista il paradigma dell’agency è un paradigma fortemente conoscitivo e ci dà molti risultati.
L’altro paradigma, quello della cultura come processo, produce effetti politici, produce mega–eventi, produce istituzioni, produce strutture… e io mi domando: basta una critica in termini di manipolazione ideologica e contro-ideologica per smascherare e ricondurre a studio rigoroso conoscitivo questo grande miscuglio di culture che abbiamo? Oppure tutto sommato alcune idee sia di Appadurai che di Geertz non ci danno un altro modo di vedere le culture come soggetti di persone ma anche di gruppi, di sentimenti – se volete – primordiali, di sistemi di sentimenti, di emozioni, di modi di fare irriducibili o che per lo meno connotano un gruppo fortemente rispetto a un altro?
È per questo che l’opposizione tra fondamentalismo culturale e apparato critico-sociale è interessante ma forse non rende ragione della grande confusione che c’è sotto il cielo, insomma. Qui Aime indubbiamente tenta di lavorare.
D: Tra queste due posizioni come ci si muove? O come non si muove Aime a riguardo? Sul discorso del fondamentalismo culturale di Huntington il riferimento dell’autore agli eccessi di cultura ci pare sia giusto, anche perché il testo di Huntington è stato criticato da molti politologi. Però ci veniva in mente, riguardo al suo discorso dell’individualità, una cosa che diceva Clemente ne “La postura del ricordante”: l’antropologo non studia la cultura ma come essa viene vissuta all’interno dell’individuo, come viene interiorizzata, riplasmata, ma questo presuppone che ci sia almeno un fondo di cultura in cui l’individuo si riconosce e si riconosce il gruppo, non crede?
R: Sì. Clemente ha studiato la prima parte. Sono due i modi di studiare la cultura. Studiando le persone o studiando i gruppi. Facendo le biografie o studiando la situazione comune.
D: Si può proporre una sintesi delle due?
R: Se vogliamo parlare del mondo – perché è di questo che noi parliamo, del mondo… il mondo è un boom - noi dobbiamo attrezzarci con delle categorie un po’ più larghe… ed è questo il problema, perché una buona biografia, una buona storia di vita è un buon lavoro antropologico. Non è solamente un’intervista, non è solo un documento. È una cultura, su questo non c’è dubbio. Evidentemente secondo i canoni della ricerca rigorosa, lavorare su un individuo significa lavorare su una cultura. E qui Clemente ha detto un sacco di cose su come il sé riflette sia il globale sia il suo modo di percepire il mondo. Però c’è anche il mondo. E il mondo è abbastanza frastagliato. Quindi se noi tentiamo di studiare le nostre isole ci scappa il tutto e sono gli altri che fanno gli antropologi al posto nostro. Sono gli antropologi della totalità. Quelli che dicono che i Celti sono i nostri nonni… e perché no, in fondo, scusate. E perché mi si deve impedire di pensare che un Celta sia il mio bisnonno, perché non posso istituire delle filiazioni culturali, discendenze, seppure immaginarie? La nostra vita è una costruzione continua di filiazione da-, di discendenze da-.
D: Ci sembra che proprio Aime parli, attraverso Lenclud, di filiazione inversa…
R: Si può fare questo discorso. È diventato questo un meccanismo della nostra attualità. La costruzione dell’identità – Remotti ha lanciato strali… bisognerebbe eliminarla, bisognerebbe usare il meno possibile questo concetto, l’identità, perché in un caso è un meta-concetto e in un altro è un concetto istitutivo; in un caso serve a una persona a dire chi è e in un altro a spiegare come è; uno serve per spiegare il mondo e l’altro per viverlo il mondo… è vero che bisognerebbe eliminare il concetto di identità perché generico, però i processi sono quelli. Quando gli altri – e quando dico gli altri intendo quelli che non sono antropologi – pensano al nostro mondo, adoperano un maxi concetto di identità, lo deificano, lo essenzializzano, lo fanno estendere su un territorio e ci costruiscono una mega-sovranità. Loro sono antropologi del tutto. E noi siamo antropologi del niente? Del poco? Della briciola? Antropologi della lente d’ingrandimento? Non penso che Aime voglia dire questo. Sto svolgendo un ragionamento mio personale. Lui esorta ad un utilizzo critico e cautelato del concetto di identità e del concetto di cultura. Lo stesso Hannerz dice: bè, tutti lo adoperano, noi non possiamo non adoperarlo, adoperiamolo bene. Vedo che si può adoperare bene questo concetto a livello di persona.
Quando invece si lavora su spazi e tempi più globali francamente abbiamo bisogno di altre concettualità.
D: A un certo punto Aime critica la pianificazione di alcuni eventi interculturali, ai quali non partecipano proprio i soggetti che dovrebbero essere protagonisti di tali manifestazioni. Viene criticato ancora una volta un uso fortemente eurocentrico della cultura….
R: Lui tratta – se non ricordo male – il rapporto tra intercultura e multiculturalismo. In un mondo di collegamenti e connessioni se diverse “culture” si incontrano cosa succede? Rimangono isole, si distruggono confini o diventano degli organismi ibridi. Una cosa è certa: il reciproco rispetto tra le culture come ideale etico illuminista non funziona. Che all’interno di uno spazio, diverse culture possano convivere è un dato di fatto oggi problematico. Non dico sia impossibile ma è problematico. Né sembra accessibile l’idea di una fusione tra le varie culture. Anche questa è una linea abbastanza poco seguibile.
Cioè, semplifichiamo. Se noi accettiamo che il concetto di cultura è un concetto non omogeneo, che non rimanda ad una realtà omogenea, non rimanda ad una realtà unitaria, ma è un concetto duttile, un’organizzazione, un modo di organizzare il mondo ma ad alta flessibilità, se noi adoperiamo un concetto anti-essenzialista di cultura, abbiamo poi problemi ad analizzare un mondo come il nostro, perché in genere siamo costretti ad adoperare un concetto di cultura forte, culture come isole, come comunità autonome e distintive le une rispetto alle altre.
C’è un doppio registro. Noi adoperiamo un concetto di cultura de-essenzializzato per comprendere il mondo, e quindi a noi il mondo appare come un insieme di persone – se va bene questa prospettiva - , loro – i non antropologi - utilizzano un nostro vecchio concetto di cultura (americano) e vedono il mondo come un insieme di isole. Sono due prospettive diverse, due visioni diverse sullo stesso mondo, per cui quando si fanno le programmazioni – che so – nelle scuole (ad esempio, come trattare i bambini del Mali), quale tipo di concetto di cultura seguiamo? È terribile.
Se seguiamo il concetto di cultura organico, noi rispettiamo la cultura di provenienza del bambino, se invece seguiamo il concetto nostro di cultura – duttilizzata, cioè de-essenzializzata – siamo nei pasticci, perché pensiamo che il bambino sia di fatto un agente capace di innestarsi nel nostro mondo, e quindi di superare i suoi confini culturali e di poter dialogare direttamente. Da questo punto di vista, anche l’uso di cultura all’interno delle pratiche scolastiche o delle agenzie educative, è un concetto abbastanza complicato. C’è chi dice che c’è l’intercultura e c’è chi dice che c’è la multicultura. In quest’ultimo caso si dice: noi dobbiamo poter conoscere le altre tradizioni, anzi, i nostri bambini conoscano le danze e le fiabe… le famose fiabe… con quest’idea si presuppone che ci sia uno zoccolo duro di cultura, di appartenenza, che non sparisce mai, rispetto al quale le forme di espressione (favole, danze…) sono un modo di essere quello che si è e di proporre quello che siamo.
Se noi invece partiamo dal concetto di cultura come strategia, più che un pacchetto, noi inseriamo il bambino del Mali – o chi per esso – in un altro tipo di realtà. Non rinforziamo la sua cultura, per così dire, ma dobbiamo stabilire altre modalità di azione didattica.
Sono due prospettive completamente diverse, rispetto alle quali noi come ci comportiamo? Educhiamo alla musica globale, alla musica popolare, alla musica del Mali? Gli educatori sono quanto mai perplessi di fronte a queste due prospettive. A livello di azione: cosa fare? Si lavora sulle persone? Oppure si rafforzano le tradizioni loro da noi, perché rafforzare le loro tradizioni da noi è importante per il confronto e la reciproca conoscenza e il miglioramento della nostra umanità?
D: Ma poi nelle scuole come si interviene? Come viene risolto il dilemma tra le due prospettive?
R: Io penso che gli insegnanti siano molto più intelligenti degli antropologi quando fanno la loro pratica didattica. Se non altro a livello istintivo. Perché poi la pratica didattica porta le persone ad agire da persona più che da rappresentante di una cultura. E di conseguenza gli insegnanti possono accorgersi dell’utilità di comportarsi in questo modo o nell’altro. In genere c’è un aggiustamento in itinere. Però se si ragiona su un progetto di lavoro, su una metodologia di intervento, sull’utilità dell’antropologia nella scuola, cosa deve fare un antropologo in una scuola? Quando noi veniamo chiamati a fare qualcosa, anche questa è una situazione abbastanza complicata perché nove volte su dieci non ci si intende sulle competenze. Primo, perché la scuola ha i suoi problemi; due, perché quando si è chiamati, si rientra già in un piano all’interno del quale si ritiene che l’antropologia giochi un certo ruolo.
D: Le sembra che questa sia una questione che venga fuori dal libro di Aime? O è invece proprio quello che manca?
R: No. No. Però bisogna schierarsi. Bisogna garantire nella pratica che le nostre operazioni abbiano un qualche esito. Se si usa un concetto, bisogna capire quali siano i suoi esiti possibili. Quello di Aime è un testo contemplativo, c’è un piano-testo contemplativo, che offre un sacco di cose, fa pensare. Però, ad esempio, sul Veneto, perché non ha citato le osservazioni che fa Ilvo Diamanti sul rapporto tra classi medie, piccola e media industria e concetto di Veneto, perché non ha lavorato anche su quella linea?
Perché il Nord-Est e il berlusconismo, per certi versi, si fondono su una sintesi di ideologia politica ed economia. E allora lo sguardo dell’antropologo comincia ad essere più complesso, entra dentro quelle che sono le analisi del Nord-Est che è una realtà. Avete letto il libro “Il distretto del piacere” di Aldo Bonomi? Si entra nell’ambito della soggettività , sulle forme del lavoro flessibile, sulle nuove forme del lavoro operaio, sul rapporto tra desiderio e vita: questo è entrare dentro le configurazioni tra economia, politica ed ideologia. Questo è compito dell’antropologo.
D: C’è un modo di scrivere di antropologia in maniera più accessibile senza correre il rischio di generalizzare o banalizzare?
R: Secondo me, non si può fare. Ora dico una bestialità: il concetto di cultura, secondo me, non è divulgabile. Il concetto di cultura è uno dei concetti più difficili da trattare; noi, forse, siamo più bravi a lavorarci piuttosto che maneggiarlo concettualmente. E quindi è una delle cose più complicate da divulgare. Viceversa, lavori di decostruzione o di critica, di confronto tra tradizioni, secondo me, sono più fattibili, più accessibili. Un lavoro del genere - “Eccessi di Cultura” - è un serpentone di concetti su concetti che poi si controllano sempre peggio. Aime poteva parlare di eccessi di uso del concetto di cultura. Probabilmente avrebbe reso meglio l’idea dell’oggetto del suo testo. E quindi avrebbe potuto presentare alcune situazioni dell’uso improprio del concetto di cultura… ma poi, improprio rispetto a che cosa? Qual è il parametro che ci dice che ho sbagliato a usare il concetto di cultura? Rispetto al concetto di persona! In quel caso, sì. È comprensibile, ma neanche condivisibile. Io non saprei individuare uno standard di culturale. Non è che il concetto di cultura è più o meno pieno o più o meno vuoto. È un meccanismo che produce effetti giganteschi in ognuna delle sue organizzazioni.
Si può fare alta divulgazione antropologica, però prendendo casi, casi particolari. Lui ha tentato di prendere dei casi e analizzarli.
D: C’è l’ultimo libro di Goody – “Islam ed Europa” – che, a detta dell’autore, è volutamente scritto semplificato per essere divulgativo. Sono vari i tentativi di antropologi che cercano di parlare a un pubblico più vasto. Sono sempre di più gli antropologi che vanno in televisione, ad esempio. Gli antropologi si sono accorti dell’interesse antropologico di eventi quotidiani e sentono l’esigenza di divulgare il loro punto di vista. Però si finisce per parlare troppo genericamente….
R: Ma quello è un libro un po’ strano. Sono le ultime trenta pagine quelle che interessano. In televisione, invece, all’antropologo viene chiesto di parlare di oggetti, mentre l’antropologo è un personaggio strano, è onnivoro, insegue la totalità dietro il particolare, non il contrario.
D: Ma il suo è un invito alla cautela o è un invito a non uscire dal linguaggio accademico?
R: No. Il mio è un invito alla cautela. Bisogna riconoscere che gli studi antropologici sono molto sofisticati, oggi. E divulgarli è difficile. Perché l’antropologia è tutta una serie di scatole e scatoline cui uno si riferisce. E senza fare riferimento a questo gioco non si capisce cosa sta succedendo. Io adopero un concetto che si riferisce a un altro che rimanda a un altro ancora… e chi lo sa, segue la filiera dei concetti. È un apparato complicato.
La divulgazione va fatta, quindi, su concetti e cose che abbiano la caratteristica della divulgabilità. Il testo di Aime non è organico. Avrebbe potuto fare un bel quadro del velo, ad esempio: vedi il gioco delle parti e inviti a vedere le cose in maniera più critica, quello è un buon servizio.
In questo caso invece pare un esercizio accademico ad utilizzare alcuni concetti per analizzare l’alterità o per lo meno cose del nostro mondo. Se si scrive per gli altri, bisogna dire: oh non ci avete capito niente, oh svegliatevi, se uno si schiera.
Però se uno vuole divulgare, si prende una situazione, la decostruisce… noi siamo bravi a decostruire i fatti. Si fanno vedere quali sono i meccanismi complessi. Il testo è un po’ riduttivo da questo punto di vista. La realtà mi sembra più magmatica, più conflittuale, meno netta. Le persone vanno inserite nei contesti. La persona non è un contesto, ma ha un suo contesto. Lavorerei su più contesti e non su uno solo.
In conclusione… divulgazione sì, ma non su concetti, bensì su casi particolari e lavorati dall’interno.
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