Il grande Boh!
Non amo la "mistica" del viaggio con le frasi e gli aforismi da santino delle Edizioni Paoline, né Lorenzo Cherubini è nelle mie corde, ma un ragazzo che affronta in bicicletta queste fatiche ed oltre alle gambe fa funzionare il cervello merita rispetto ed interesse. Non sarei in grado di compiere quei percorsi neppure se mi facessi un strisciata..." Il libro fu ben accolto dalla critica; per esempio, Giovanni Pacchiano del Corriere della Sera lo paragonò ai lavori di Bruce Chatwin, definendo Jovanotti "un eccellente scrittore-viaggiatore", e Fernanda Pivano scrisse "un grande scrittore di viaggio, con qualche reminiscenza di Jack Kerouac" (terza di copertina). Ma lo stigma del grande viaggiatore è l'uso della Leica, chapeau! Il Grande Boh! non è un semplice diario di viaggio. Non è un romanzo, né un'opera puramente autobiografica. Ma è un momento di grande riflessione. Vissuto con sincerità e quasi con stupore. Il viaggio interiore e geografico di un moderno clochard di successo rivolto verso la vita ed il mondo con l'animo totalmente aperto, pronto ad incidervi sopra ogni segno, a registrare i sorrisi e gli sguardi che le armonie ed i testi delle sue canzoni cercano di catturano già da tempo. Pregare e mangiare a Città del Messico, pensare e respirare negli inquietanti silenzi africani, sognare a L'Avana, e poi ritrovare l'Italia, Cortona, la dimensione familiare. E intanto scrivere canzoni per il prossimo album, inframmezzare al viaggio, fatto di continui spostamenti, la propria vita. "…Uno è attratto dai posti in fondo al mondo perché pensa che lì potrà trovare quello che è in fondo a se stesso" e Jovanotti spazia da un continente all'altro assaporando momenti e sensazioni, ammassando parole e frasi che sfidano audacemente le norme grammaticali, ma regalano forti sensazioni. La testimonianza di un personaggio che non vuole stupire, ma che si è sorpreso e scoperto. "…Il deserto ti svuota la testa, non è un posto di pensiero, è un posto che annulla il pensiero. Il tempo si adegua allo spazio e lo spazio è senza fine, senza punti di riferimento, è aria e luce…". Il viaggio più importante è quello in Patagonia che Jovanotti attraversa da solo in bicicletta, un’esperienza che mescola sentimenti di gioia e desolazione, mistero e bellezza e dove Cherubini vede luoghi stupendi e viene ospitato da persone molto gentili, esperienze che non dimenticherà: “I miei occhi conservano le immagini di questi spazi, di questi giorni e non so se se ne andranno di lì, credo di no… E così conserverò in una tasca invisibile della mia pelle un po’ di questo vento,… le cose che nelle foto non si vedono, le parole che non si comunicano, i profumi, le strette calde di mani dure… e qui torna la mistica del viaggio tanto cara a amici e colleghi”.
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Un estratto "La mia è sempre più la lingua dei viaggiatori e chi decide di ascoltarmi deve sapere che io sono uno che racconta mondi che ha visto e mondi che vuole vedere, e che non conosco a fondo la lingua del posto, la lingua degli stanziali, strimpello strumenti e parlo male diverse lingue e di volta in volta ho bisogno di musicisti e di interpreti per metter su le tende nel luogo e restare finché non mi riprende il senso di irrequietezza che mi porta a fare di nuovo i bagagli e partire.".
SAHARA fine settembre 1997
Il deserto ti svuota la testa, non è un posto di pensiero, è un posto che annulla il pensiero. Il tempo si adegua allo spazio e lo spazio è senza fine, senza punti di riferimento, è aria e luce (ora ho capito cosa intendeva Ferretti quando diceva che il confine è d'aria e luce). Sono venuto da solo nel deserto (non è importante che sia il Sahara o qualcos'altro, è un deserto e basta), un uomo che si chiama Abdu e che ho conosciuto a Erfoud mi ha portato in macchina fin qui e poi se n'è andato dicendo che sarebbe venuto a prendermi tra qualche giorno. Io ho una piccola tenda, tre pagnotte, dieci litri d'acqua, questo quaderno, due penne, due libri, uno di Kerouac e uno di Dio, o per lo meno di gente che sostiene di conoscerlo bene. Ho piantato la mia tenda a igloo vicino alla tenda di una famiglia di nomadi che allevano capre e ci sono quattro figli tre cammelli quattro asini e un cane. Loro mi permettono di stare qui, il tipo che mi ha accompagnato in questa parte di Sahara seguendo una pista invisibile sulla sabbia ma che lui riusciva a distinguere abbastanza bene ha spiegato al capofamiglia che sono un musicista e sono qui per sentire il suono del deserto e questo gli è piaciuto molto. Ho dovuto chiedergli il permesso per piantare la tenda perché il deserto è dei nomadi, e mi sembra sacrosanto. Loro parlano solo berbero e un po' arabo e si comunica a gesti ma non c'è problema, non c'è un gran bisogno di dirsi chissacché, quello che serve si riesce a dire. C'è molto vento e ho fatto fatica a piantare la tenda, sono riuscito a tenerla a terra appoggiandoci sopra lo zaino e le bottiglie di plastica con l'acqua e poi piano piano l'ho tirata su e ho fissato i picchetti con delle pietre che sono riuscito a trovare qui vicino, le uniche a una distanza ragionevole. Intorno a me la sabbia e il vento. Sono contento di essere qui, sono entusiasta, direi, e ho tutte le cellule felici perché sto facendo questa esperienza. Adesso è già buio e io quasi non ci vedo più niente e allora smetterò di scrivere e me ne starò un po' così fino a quando non mi prende sonno.
Mi ha preso sonno verso le dieci, fino ad allora sono stato con la mia famiglia di nomadi berberi. Mi ero portato da mangiare ma loro mi hanno tenuto a cena. Abbiamo bevuto tè e mangiato un uovo sodo a testa, un pezzo di pane da intingere in un unico piatto di verdure galleggianti in una brodaglia piccante, una buona cena. Sono gente simpatica, una bella famiglia con delle belle facce, vorrei chiedergli molte cose ma per fortuna la lingua non lo permette a allora vada per il silenzio, che comunque non è affatto vuoto e nemmeno un silenzio di imbarazzo come a quelle cene dove se per qualche secondo c'è silenzio si sente subito il rumore delle posate e delle mascelle che nella nostra società è insopportabile e allora qualcuno subito rompe il vuoto con un "be'" o con un "mmmh, buono..." o con un "comunque" o qualche altra chiave per togliersi dall'imbarazzo di un silenzio che invece è un silenzio vuoto. Qui a fine cena il capofamiglia ha cacciato un grosso rutto che era meglio di un complimento. Ragazzi, voi non vi potete immaginare che cos'è il cielo visto da una tenda nel deserto, vi giuro che non ve lo potete immaginare. Prendi un bel cielo d'agosto con tanto di stelle cadenti visto da una spiaggia di Riccione e moltiplicalo per un milione, ecco forse così ci si avvicina. È una cosa che si tocca, è un abbraccio vero e proprio, è un tetto, un tetto che ti dà il senso di tetto, ti dà questo senso di essere al sicuro, di essere a casa. Tanto le cose stanno così, per conoscere veramente qualcosa bisogna sapere cosa c'è dall'altra parte, è come se la conoscenza fosse un fatto di equilibri tra cose opposte. Non si più avere un'idea di cosa è una grande città senza aver dormito da soli nel deserto e forse chi vive nel deserto non sa molto di sé fino a che non conosce una grande città. Comunque questi nomadi mi sembrano felici, un po' disgraziati ma felici. La notte fa molto freddo tipo zero gradi e bisogna coprirsi bene e al mattino ti sveglia il caldo ed è una bella sensazione. Ho fatto un sogno poliziesco che ora non ricordo bene.
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