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Ritorno in Tibet

Harrer Heinrich


Editeur - Casa editrice

Mondadori

  Asia
Tibet
esilio


Città - Town - Ville

Milano

Anno - Date de Parution

1999

Pagine - Pages

182

Titolo originale

Return to Tibet

Lingua originale

Lingua - language - langue

italiano

Edizione - Collana

Oscar Bestseller

Traduttore

Osimo Bruno

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Ritorno in Tibet
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Return to Tibet: Tibet After the Chinese Occupation

Ritorno in Tibet Ritorno in Tibet  

Nel 1982, trent'anni dopo la sua fuga dal Tibet invaso dai cinesi, Heinrich Harrer riesce finalmente a tornare in quella che sente ormai come la sua patria adottiva. Tutto sembra cambiato: i templi rasi al suolo, il panorama sfigurato, la città trasformata in un triste spettacolo costringono l'autore a continui paragoni con il felice passato del Tibet indipendente, che l'aveva visto protagonista delle avventure di "Sette anni in Tibet". Ma Harrer non tarda a capire che, nonostante i tanti anni di occupazione e repressione, il tentativo di "cinesizzare" il paese è fallito. Il saccheggio e la distruzione di tesori unici e di migliaia di antichi monasteri hanno in realtà rafforzato la coraggiosa resistenza di un popolo sempre più ancorato alla sua religione, poderoso vincolo di unione culturale e sociale. Harrer ci accompagna così in un itinerario intenso e commosso, in cui l'amore per il popolo tibetano si intreccia con la difesa della sua misteriosa e saggia civiltà.

"Il mio scopo principale è far sapere quanti preziosi tesori della cultura siano andati perduti e quanto sia importante trovare ora il modo di salvaguardare il carattere specifico della patria di un popolo per molti aspetti davvero affascinante, un popolo il cui destino è molto caro al mio cuore.
La testa mi ronzava ancora per tutti i resoconti letti nei libri e sui giornali a partire dal 1951, allorché il Tibet venne occupato dalla Cina. Ma questi resoconti, che inevitabilmente spaziavano dai fatti storici alle impressioni personali, non riuscivano in nessuna misura a soddisfare la mia mente indagatrice, né i sentimenti e i ricordi assorbiti in sette anni di soggiorno in quel paese. Finalmente, nonostante i precedenti e numerosi tentativi falliti di ottenere il visto d'ingresso dalle autorità cinesi, ora ero seduto su un aereo con destinazione Lhasa. Dopo anni di «non ancora», finalmente nella primavera del 1982 ho potuto realizzare quello che forse è stato il mio desiderio più grande: dopo trent'anni esatti, tornare ancora una volta nella mia seconda patria, nel paese il cui destino mi sta tanto a cuore. è naturale che mi sentissi più eccitato che in qualsiasi altro viaggio, e che i miei sensi fossero più vigili del solito. Nei giorni successivi avevo intenzione di affidarmi al mio istinto per raffrontare e anche per capire; ero deciso a fare affidamento su quello che avessero visto i miei occhi e a cercare di giudicare la realtà con l'aiuto della cultura e dell'esperienza.
Da Chengdu alla pista di atterraggio nella valle del Brahmaputra, proprio al centro del Tibet, c'erano tre ore di volo. Stavamo sorvolando delle vette ghiacciate di sei-settemila metri e l'altopiano tibetano, spolverato lievemente di neve, che si estendeva sotto di noi con lo stesso biancore misterioso e con la medesima intensità che io e Peter Aufschnaiter avevamo ammirato per due anni durante la nostra fuga. Allora, non c'erano né mappe né notizie attendibili dei percorsi che avevamo intenzione di seguire. Si doveva avanzare nell'ignoto, badando a mantenere sempre direzione Nordest. Speravamo di incontrare alcuni nomadi che potessero indicarci l'itinerario più sicuro e dirci quanto mancava a Lhasa. Persino a noi il nostro piano sembrava degno del cervello di una gallina, e le gelide bufere invernali che incontrammo nella regione di frontiera ci dettero un'idea di quello che ci stava aspettando.
Fu il 2 dicembre 1945 che lasciammo la valle abitata del Brahmaputra per attraversare la catena disabitata dell'Himalaia. All'imboccatura dello stomaco avevo la stessa sensazione di quando mi ero accinto a scalare la parete nord dell'Eiger o quella provata dopo aver visto per la prima volta il Nanga Parbat. Mi domandavo se non stessimo sopravvalutando follemente le nostre forze, e non mi detti pace finché non entrai in azione superando il punto di non ritorno. Eppure, se allora avessimo anche solo vagamente sospettato quello che ci aspettava, molto probabilmente avremmo fatto dietrofront: davanti a noi c'era una terra incognita, sconosciuta a chiunque, e anche sulle mappe approssimative della regione i nostri percorsi ci avrebbero portato attraverso aree desolate, quelle che ora, trentasette anni dopo, per la prima volta vedevo sotto di me. Allora provavo la stessa sensazione di adesso: sentivo che ero faccia a faccia con la più grande distesa disabitata del pianeta. Con la differenza che, questa volta, ero seduto dentro un aereo riscaldato e confortevole. In quell'occasione, invece, io e Aufschnaiter eravamo a piedi, costantemente tra i cinque e i seimila metri di altitudine. Visto dall'alto, il paesaggio era ricoperto da un sottile strato di neve, e un vento gelido lo stava spazzando. Da nessuna parte c'era il minimo segno di vita, ma, quando ho individuato alcuni piccoli tumuli di pietre costruiti dai nomadi, mi sono sentito rassicurato. Per me erano come un ponte dalla solitudine di quelle terre inospitali verso gli dèi.
Dai finestrini ho cercato di scattare alcune fotografie delle venature bianche che si insinuavano tra le montagne, che in realtà erano torrenti congelati. Ricordo ancora la tortura che in quell'altra occasione dovemmo subire a causa delle pessime calzature. Il manto di neve non teneva bene, e varie volte sprofondammo insieme con il nostro yak. Era stato un progredire faticoso, pieno di incertezze su ciò che ci stava aspettando.
La discesa graduale dell'aereo stava a significare che Lhasa era ormai vicina. Mentre volavamo da est a ovest sopra la valle del Brahmaputra, la mia eccitazione cresceva; laggiù sull'altopiano doveva esserci Samye. Il monastero era stato eretto da Padmasambhava all'incirca nel 775 d. C. ed era diventato il primo insediamento comunitario di monaci buddhisti. Io e Peter Aufschnaiter avevamo fatto due escursioni al venerabile edificio e ricordavo bene una conversazione con il giovane Dalai Lama a proposito dell'antica saggezza dei tibetani riguardo alla separazione del corpo dalla mente. La storia tibetana riferisce di molti santi che sono riusciti a guidare la propria mente in modo da agire a centinaia di chilometri di distanza, mentre i loro corpi erano immersi in profonda meditazione. Il Dalai Lama, allora sedicenne, era convinto che, grazie alla sua fede e all'aiuto dei riti prescritti, anche lui avrebbe imparato a produrre tale effetto a così lunghe distanze.
Aveva desiderato mandarmi a Samye e dirigermi telepaticamente da Lhasa. Ricordo di avergli detto: «Bene, Kundün, se ci riesci, mi farò buddhista». Sfortunatamente l'esperimento non venne fatto, perché le ombre della catastrofe politica si stavano già accumulando. Ma nella mia mente quella conversazione è rimasta legata al monastero di Samye.
Quello che ora vedevo dall'aereo era scioccante, anche se naturalmente lo sapevo da tempo: di Samye rimanevano soltanto le rovine; tutto il monastero era stato raso al suolo. Ora, mentre premevo il pulsante della mia macchina fotografica, ricordavo le tante fotografie che avevo scattato in questo centro religioso circa quarant'anni prima, fotografie ora di valore tristemente documentario.
Stavamo planando sopra il Brahmaputra, in primavera quasi privo d'acqua, e ho riconosciuto i primi villaggi. Mentre mi accingevo a scendere dall'aereo pensavo che sicuramente avrei visto sventolare le bandiere di preghiera e sentito l'odore proveniente dai fuochi alimentati dal letame di yak. E invece ci venivano incontro dei cinesi con le loro uniformi identiche e semplici. E là, in quella monotonia militaresca, d'un tratto ho scorto una faccia timida, amichevole, familiare, tibetana. Era Drölma, ora quarantacinquenne, la moglie del mio vecchio amico Wangdü Sholkhang Tsetrung. Con esitazione ci siamo avvicinati l'un l'altra. Lei non sarebbe stata in grado di riconoscermi dall'aspetto: quando anch'io vivevo a casa Tsarong, lei era una bambina ben sorvegliata. Anche se naturalmente conosceva il mio nome e sapeva del mio arrivo, non poteva sapere ciò che stavo pensando. Mi osservava seria, e in seguito una giovane oftalmologa che viaggiava con me mi ha detto che quelli di Drölma erano gli occhi più belli e più tristi che avesse mai visto.
Ho chiesto dolcemente alla riservata tibetana se, come ai vecchi tempi, potessi chiamarla ancora Drölma o se era meglio che mi rivolgessi a lei come signora Sholkhang. «No, no, per lei io sono ancora la vecchia Drölma» ha detto impetuosa, ma io mi sono reso conto che non era più la stessa. Mentre stavamo conversando in tibetano, ora un po' più rilassati, il nostro accompagnatore, la cosiddetta Guida nazionale di Pechino, è venuto a dirmi che, se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, avrei potuto chiedergliela. L'ho ascoltato a malapena; ho solo guardato Drölma e ho pensato alla sua formazione, alla sua vita e al suo destino. Stavo cercando i movimenti aggraziati, l'allegria e l'atteggiamento spensierato, caratteristiche tipiche delle donne tibetane; ma l'unica cosa che vedevo erano serietà e rassegnazione.
Drölma era figlia del famoso Tsarong, che aveva sposato tre sorelle. Una di queste sarebbe diventata Rinchen Drölma Taring, autrice del famoso libro A Daughter of Tibet,* pubblicato in Inghilterra da John Murray. Un'altra delle mogli era la mamma di Drölma. La terza era Tsarong Pema Dolkar, che io avevo conosciuto bene a Lhasa e con la quale Tsarong aveva vissuto fino alla morte.
Il grande Tsarong. Le relazioni di famiglia dei nobili tibetani sono enormemente complicate: consentono loro di sposarsi con le cognate e permettono numerose adozioni, di modo che un padre può diventare uno zio e una nipote una figliastra. Il primo grande nome della dinastia è quello di Tsarong Wangchuk Gyalpo; egli era nato nel 1866, aveva avuto dieci bambini ed era stato assassinato su ordine di un coreggente geloso, a Lhasa nel 1912. è noto come Tsarong I, e si procurò moltissimi nemici perché voleva mettere fine all'isolamento del Tibet dal resto del mondo. Introdusse parecchie innovazioni che fino allora a Lhasa erano sconosciute, come la macchina per cucire, la macchina fotografica, le sigarette e il tè dolce.
Tsarong II, seconda figura importante della dinastia, non era figlio di Tsarong I, bensì di un fabbricante di frecce che aveva scelto il nome di Tsarong. Il suo vero nome era Chensal Namgang; era un favorito del tredicesimo Dalai Lama e diventò un uomo ancora più importante del suocero, Tsarong I. Ha creato senz'altro una certa confusione nell'albero genealogico della famiglia alla quale si è legato col matrimonio: prima ha sposato la seconda figlia di Tsarong I, poi la quarta, e infine la sesta: ossia tre sorelle una dopo l'altra. Il frutto del suo matrimonio con Pema Dolkar fu Dadul Namgyal, che diventò poi Tsarong III e a sua volta padre di un Rinpoche, nome legato a qualsiasi reincarnazione.
Tsarong II era un amministratore straordinario, anche secondo gli standard occidentali, un importante diplomatico che ebbe il coraggio di opporsi al Dalai Lama e che sempre cercò di attuare riforme nel proprio paese, un uomo il cui saggio consiglio veniva ricercato per tutte le importanti questioni governative. Era uno che si era fatto da sé secondo l'accezione più moderna, e le sue capacità ne fecero una personalità di rilievo in tutti i paesi occidentali. Non dimenticherò mai la gratitudine che devo a Tsarong per avere aperto la sua casa a me e a Aufschnaiter e per averci aiutati a trovare una sistemazione a Lhasa.
Dopo il 1956, quando molti nobili accompagnarono il Dalai Lama a Kalimpong, a est di Darjeeling, per celebrare il duemilacinquecentesimo anniversario della «manifestazione» del Buddha, Tsarong rimase in India. Egli e i componenti della sua famiglia non furono gli unici a rinunciare a quella favorevole occasione. Molti tibetani ricchi non ritornarono a Lhasa. Ma mentre parecchi di loro riuscirono a mettere su una nuova casa, il vecchio Tsarong non fu capace di dimenticare la sua terra natia. Nel 1958, nonostante gli avvertimenti della famiglia e degli amici, decise di ritornare nel Tibet, in armonia con il principio di molti tibetani coraggiosi: «Quello che nel tuo paese non ti piace, lo devi combattere dall'interno del tuo paese». Era inoltre convinto dall'esperienza che presto si sarebbe trovato in buone relazioni con gli «stranieri» che avevano occupato il suo paese, così come era sempre stato in buone relazioni con tutti gli altri stranieri che avevano visitato il Tibet.
Quando Tsarong ritornò a Lhasa, ebbe un colloquio con Pala, primo tesoriere del Dalai Lama, che lo spinse a convincere il capo spirituale a non rimanere in Tibet. Pala gli disse: «Tu sei vecchio e sei esperto, dovresti parlarne col Dalai Lama». Tsarong, a quanto si sa, ne ebbe due di colloqui. Così, quando il Tibet venne attaccato dai cinesi, nel marzo 1959, la fuga del Dalai Lama era già stata organizzata. Lo Tsongdü, l'Assemblea Nazionale, riunita in seduta permanente nel Potala, il palazzo-fortezza del Dalai Lama, pretese che Tsarong - che era presente alla seduta - rimanesse, in quanto funzionario governativo tibetano esperto, ancora a Lhasa. Alcuni giorni dopo il Norbulingka, il giardino in cui è eretto il Palazzo estivo del Dalai Lama, fu bombardato, e Tsarong II venne imprigionato dai cinesi.
Sono riuscito a entrare in possesso di un fotogramma di un film cinese che mostra tre nobili in una prigione mentre venivano fatti marciare con le mani in alto. Uno di questi era Tsarong II. Ho tenuto l'immagine in mano per molto tempo, cercando di intuire dai lineamenti familiari che cosa potesse pensare in quel momento. Nei suoi occhi di idealista, che quasi disperava del destino della propria nazione e che non poteva riconciliarsi con il fatto che al Tibet non venisse data la possibilità di mettere ordine nei propri affari, ho letto gravità e calma, ma anche derisione e disprezzo. Per lui, prima di qualsiasi altra virtù, veniva la giustizia e proprio questa era negata al suo popolo. Era uno di quei progressisti che sapevano benissimo che l'aristocrazia e la gerarchia monastica avrebbero dovuto cambiare per adattare il futuro destino del Tibet alle nuove condizioni del mondo, e abbracciò il motto di Garibaldi, che una volta gli avevo citato: «Se vogliamo rimanere come siamo, certe cose vanno cambiate».
Per lui, vecchio eroe, non c'era futuro. La mattina del 14 maggio 1959, il giorno in cui avrebbe dovuto presentarsi davanti a un grande Tribunale del Popolo per venire umiliato davanti ai propri Sudditi, venne trovato morto sul materasso della cella della prigione. Forse si era suicidato inghiottendo alcune schegge di diamante che - come una volta mi aveva detto - portava sempre nascoste addosso. La morte gli risparmiò l'umiliazione e l'ingiustizia peggiori: un processo pubblico da parte di un Tribunale del Popolo.
Al mio secondo arrivo a Lhasa, era primavera in Tibet e il sole era molto luminoso. Ho scattato fotografie e mi sono ricordato che nel 1952, quando ero tornato in Europa con le mie poche diapositive, nessuno credeva alla fedeltà dei colori. Tutti dicevano che la pellicola doveva essere difettosa e che i colori non erano reali: non poteva esistere un cielo così azzurro, nessuno specchio d'acqua poteva essere così verde. Ma ora, trent'anni dopo, scorgevo ancora una volta questi colori incredibilmente intensi, quell'incredibile azzurro, quel rilassante verde dei prati come mi era capitato di vedere il primissimo giorno sulle rive del Kyichu, affluente del Brahmaputra. Naturalmente, l'altitudine è un fattore importante nella formazione di questi colori e l'aria priva di polvere che c'è a quattromila metri li fa risaltare con un'intensità e una purezza particolari.

 


Recensione in altra lingua (English):

A fusty, indignant report -dated 1983- from Tibet by Harrer (Seven Years in Tibet, not reviewed), the now-celebrated adventurer who briefly returned to his "second home'' 30 years after fleeing China's invasion.
In 1945 the Austrian author escaped from a British prisoner-of-war camp, hoofed it over the Trans-Himalayan range, and eventually arrived in Lhasa, capitol of Tibet. There he found what he took to be an idyll: a sublime mix of Tibetan Buddhism, ancient customs, and dust-free air that made landscape colors incandescent. He became an important figure in the country--chief engineer, tutor of the Dalai Lama--but left as the Chinese commenced their occupation.
In 1982 he was able to revisit Tibet during the "Chinese-staged thaw,'' and he was by turns heartbroken and inspired by what he observed: Valuable cultural treasures had been destroyed by the invaders, and stories of concentration camps, forced labor, and political murders sent him reeling.
Yet the country's religion was still strong, and there continued both armed resistance to the Chinese and an unquashable national will. His two sojourns in the country make for some intriguing before-and-after comparisons, and his comments on particulars of Tibetan Buddhism are revealing. But the tone of the book is dryly nostalgic, when not bitter, and Harrer's opinions sometimes seem jarringly contradictory.
He rails against what the Chinese have done to the countryrazing monasteries, imprisoning and killing nationalsand then inexplicably suggests that China and Tibet might be well served by a partnership, with Tibet happily becoming "part of that enormous yellow state.'' Moreover, every so often he lets the feudalist in him shine through unforgivably in making unfortunate remarks on his longing for a land "where superstition would be the poetry of life.'' The insights are worth the cover price anyhow, despite the authors occasional reactionary comments and his priggishness.



Recensione in lingua italiana

Ho letto il volumetto nel 1986 volando da Chengdu a Lhasa. Ci avrebbe aiutato a capire quali erano i cambiamenti fra la Lhasa dei nostri sogni e la città reale. Harrer era tornato con un incarico da parte del Dalai Lama. Oggi anche la Lhasa vista da Harrer nel 1982 è scomparsa. Gli edifici cinesi sono stati abbattuti da nuovi palazzi ferro cemento cinese.
Trudurlo e pubblicarlo dopo quasi vent'anni è stata una operazione commerciale.


Biografia

Harrer Heinrich

Tratto dal sito di Italia Tibet.
L’alpinista austriaco Heinrich Harrer, autore del famosissimo best seller “Sette anni in Tibet” dal quale è stato tratto l’omonimo film diretto da Jean-Jacques Annaud, è morto il 7 gennaio scorso all’età di 94 anni.
Arrivò fuggiasco dall’India e si trattenne a Lhasa per oltre cinque anni durante i quali fu anche “maestro di cultura occidentale” dell’attuale Dalai Lama con il quale instaurò un’intima e personale amicizia.
Harrer era nato il 6 luglio (stesso giorno del Dalai Lama) del 1912 a Knappenberg in Corinzia. Figlio di un postino, aveva studiato geografia all’Università di Graz.
Fu atleta olimpico ai giochi invernali del 1936 nella combinata alpina ma la sua impresa più importante, come alpinista, risale al 1938 e fu l’ascesa della terribile parete nord dell’Eiger (Alpi Svizzere) che gli valse l’incarico, da parte di Himmler e del governo nazista, di guidare la spedizione austro-tedesca alla conquista del Narga Parbat in Kashmir.
Siamo nel 1944 e in questo momento comincia la storia che ha reso Harrer famoso in tutto il mondo.
Si apre così una delle più affascinanti pagine di avventura del XX secolo.
L’arrivo della spedizione a Karachi coincide con la dichiarazione di guerra dei tedeschi all’Inghilterra e Harrer e gli altri sono arrestati dai britannici e incarcerati nel campo di prigionia di Dehra Dun (India del Nord).
Da qui, Harrer e il suo compagno Peter Aufschnaiter riescono a scappare, attraversano l’Himalaya percorrendo 2000 chilometri a piedi e arrivano a Lhasa eludendo pericoli, insidie e anche i divieti per i visitatori stranieri.
Harrer riesce a guadagnarsi la simpatia dei tibetani ed è accolto nell’alta società fino a diventare confidente e precettore dell’allora giovanissimo Dalai Lama al quale insegna la lingua inglese.
Vi rimane fino al 1950, anno in cui il Tibet è annesso alla Cina.
Una volta tornato in Europa scrive il libro che lo ha reso oltremodo celebre Jähre in Tibet (Sette anni in Tibet) che viene tradotto in oltre 50 lingue e pubblicato in tutto il mondo.
E’ questo tra i più grandi contributi di diffusione della cultura tibetana.
Harrer ha poi contribuito alla creazione del "Freunde des Heinrich-Harrer-Museums Hüttenberg" un museo che raccoglie grande parte degli oggetti provenienti dai suoi viaggi e in particolare dal Tibet, paese che nel suo cuore ha sempre avuto uno spazio particolare come testimonia una sua celebre dichiarazione in cui afferma che i suoi anni in Tibet sono stati “i sette anni più felici della mia vita”.
La notizia della morte di Heinrich Harrer è arrivata anche ad Amravati dove il Dalai Lama sta impartendo gli insegnamenti di Kalachakra.
Sua Santità si è detto profondamente dispiaciuto per la perdita del suo caro amico e maestro di inglese oltre che di cultura europea e ha, ancora una volta, ribadito la sua gratitudine anche per quanto Harrer ha fatto per la causa del Tibet e per la cultura tibetana.
Heinrich Harrer, al quale è stata conferita la medaglia della «Luce della Verità» dal governo tibetano in esilio, avrebbe dovuto porre, nel prossimo mese di maggio, la prima pietra del Centro europeo del Tibet nel suo paese natale (Knappenberg).
A margine una spiacevole considerazione.
I principali giornali di tutto il mondo hanno dato risalto, anche con titoli evidenti, alla scomparsa di Harrer, non li citiamo solo per il fatto che sono davvero tanti. Per contro, da una ricerca di rassegna stampa effettuata, in lingua italiana risultano solo tre (!) articoli: una nota dell’agenzia di stampa Reuters, e altri dei portali internet Caltanet e Swissinfo.
Crediamo che dilungarci in un commento al riguardo sia inutile ma non abbiamo potuto fare a meno di notare quanto la stampa italiana sappia essere assente.



Heinrich Harrer, noted Austrian explorer and mountaineer, escaped over the Himalaya from a prisoner-of-war camp in British India with Peter Aufschnaiter and then lived and worked as a fifth-ranked nobleman in the forbidden city of Lhasa. As confident and informal tutor to the young Tibetan leader, the Dalai Lama, Harrer was afforded access to ceremonies and customs that had been rarely witnessed by Westerners.

In the company of the Tibetan nobility, Harrer photographed a virtual family album of their lives, and, in so doing, captured the richness and heart to a people: the moments with friends and family who had long accepted the photographer's eye. The Tibetan's joy at play, the leisure of the nobility, the splendor of the Buddhist rituals, the windswept plains of the high plateau -- Harrer's photographs document with a mountaineer's sense of scale and an explorer's sensitivity to culture.

Heinrich Harrer left Lhasa in advance of the Chinese army in December of 1950. Harrer's memoir, Seven Years in Tibet,has been translated into 53 languages and has sold more than four million copies. In October 1997, a motion picture based on his book, starring Brad Pitt as young Heinrich Harrer, was released to major box-office success and Seven Years in Tibet again soared on best-seller lists around the world.

Harrer has received numerous honors, including the Gold Humboldt Medal and the Explorers Club Medal for his many expeditions and explorations. He has written over 20 books and received credit on over 40 film productions. His body of work spans five decades of exploration over six continents. In addition, Heinrich Harrer has become widely known as an outspoken advocate of human rights.
Heinrich Harrer and the exiled Dalai Lama remain steadfast friends.
Harrer died on 7th January 2006.

Consulta anche: Harrer - Portolio
Consulta anche: Wikipedia: Harrer