Nel 1982, trent'anni dopo la sua fuga dal Tibet invaso dai cinesi, Heinrich Harrer riesce finalmente a tornare in quella che sente ormai come la sua patria adottiva. Tutto sembra cambiato: i templi rasi al suolo, il panorama sfigurato, la città trasformata in un triste spettacolo costringono l'autore a continui paragoni con il felice passato del Tibet indipendente, che l'aveva visto protagonista delle avventure di "Sette anni in Tibet". Ma Harrer non tarda a capire che, nonostante i tanti anni di occupazione e repressione, il tentativo di "cinesizzare" il paese è fallito. Il saccheggio e la distruzione di tesori unici e di migliaia di antichi monasteri hanno in realtà rafforzato la coraggiosa resistenza di un popolo sempre più ancorato alla sua religione, poderoso vincolo di unione culturale e sociale. Harrer ci accompagna così in un itinerario intenso e commosso, in cui l'amore per il popolo tibetano si intreccia con la difesa della sua misteriosa e saggia civiltà.
"Il mio scopo principale è far sapere quanti preziosi tesori della cultura siano andati perduti e quanto sia importante trovare ora il modo di salvaguardare il carattere specifico della patria di un popolo per molti aspetti davvero affascinante, un popolo il cui destino è molto caro al mio cuore. La testa mi ronzava ancora per tutti i resoconti letti nei libri e sui giornali a partire dal 1951, allorché il Tibet venne occupato dalla Cina. Ma questi resoconti, che inevitabilmente spaziavano dai fatti storici alle impressioni personali, non riuscivano in nessuna misura a soddisfare la mia mente indagatrice, né i sentimenti e i ricordi assorbiti in sette anni di soggiorno in quel paese. Finalmente, nonostante i precedenti e numerosi tentativi falliti di ottenere il visto d'ingresso dalle autorità cinesi, ora ero seduto su un aereo con destinazione Lhasa. Dopo anni di «non ancora», finalmente nella primavera del 1982 ho potuto realizzare quello che forse è stato il mio desiderio più grande: dopo trent'anni esatti, tornare ancora una volta nella mia seconda patria, nel paese il cui destino mi sta tanto a cuore. è naturale che mi sentissi più eccitato che in qualsiasi altro viaggio, e che i miei sensi fossero più vigili del solito. Nei giorni successivi avevo intenzione di affidarmi al mio istinto per raffrontare e anche per capire; ero deciso a fare affidamento su quello che avessero visto i miei occhi e a cercare di giudicare la realtà con l'aiuto della cultura e dell'esperienza. Da Chengdu alla pista di atterraggio nella valle del Brahmaputra, proprio al centro del Tibet, c'erano tre ore di volo. Stavamo sorvolando delle vette ghiacciate di sei-settemila metri e l'altopiano tibetano, spolverato lievemente di neve, che si estendeva sotto di noi con lo stesso biancore misterioso e con la medesima intensità che io e Peter Aufschnaiter avevamo ammirato per due anni durante la nostra fuga. Allora, non c'erano né mappe né notizie attendibili dei percorsi che avevamo intenzione di seguire. Si doveva avanzare nell'ignoto, badando a mantenere sempre direzione Nordest. Speravamo di incontrare alcuni nomadi che potessero indicarci l'itinerario più sicuro e dirci quanto mancava a Lhasa. Persino a noi il nostro piano sembrava degno del cervello di una gallina, e le gelide bufere invernali che incontrammo nella regione di frontiera ci dettero un'idea di quello che ci stava aspettando. Fu il 2 dicembre 1945 che lasciammo la valle abitata del Brahmaputra per attraversare la catena disabitata dell'Himalaia. All'imboccatura dello stomaco avevo la stessa sensazione di quando mi ero accinto a scalare la parete nord dell'Eiger o quella provata dopo aver visto per la prima volta il Nanga Parbat. Mi domandavo se non stessimo sopravvalutando follemente le nostre forze, e non mi detti pace finché non entrai in azione superando il punto di non ritorno. Eppure, se allora avessimo anche solo vagamente sospettato quello che ci aspettava, molto probabilmente avremmo fatto dietrofront: davanti a noi c'era una terra incognita, sconosciuta a chiunque, e anche sulle mappe approssimative della regione i nostri percorsi ci avrebbero portato attraverso aree desolate, quelle che ora, trentasette anni dopo, per la prima volta vedevo sotto di me. Allora provavo la stessa sensazione di adesso: sentivo che ero faccia a faccia con la più grande distesa disabitata del pianeta. Con la differenza che, questa volta, ero seduto dentro un aereo riscaldato e confortevole. In quell'occasione, invece, io e Aufschnaiter eravamo a piedi, costantemente tra i cinque e i seimila metri di altitudine. Visto dall'alto, il paesaggio era ricoperto da un sottile strato di neve, e un vento gelido lo stava spazzando. Da nessuna parte c'era il minimo segno di vita, ma, quando ho individuato alcuni piccoli tumuli di pietre costruiti dai nomadi, mi sono sentito rassicurato. Per me erano come un ponte dalla solitudine di quelle terre inospitali verso gli dèi. Dai finestrini ho cercato di scattare alcune fotografie delle venature bianche che si insinuavano tra le montagne, che in realtà erano torrenti congelati. Ricordo ancora la tortura che in quell'altra occasione dovemmo subire a causa delle pessime calzature. Il manto di neve non teneva bene, e varie volte sprofondammo insieme con il nostro yak. Era stato un progredire faticoso, pieno di incertezze su ciò che ci stava aspettando. La discesa graduale dell'aereo stava a significare che Lhasa era ormai vicina. Mentre volavamo da est a ovest sopra la valle del Brahmaputra, la mia eccitazione cresceva; laggiù sull'altopiano doveva esserci Samye. Il monastero era stato eretto da Padmasambhava all'incirca nel 775 d. C. ed era diventato il primo insediamento comunitario di monaci buddhisti. Io e Peter Aufschnaiter avevamo fatto due escursioni al venerabile edificio e ricordavo bene una conversazione con il giovane Dalai Lama a proposito dell'antica saggezza dei tibetani riguardo alla separazione del corpo dalla mente. La storia tibetana riferisce di molti santi che sono riusciti a guidare la propria mente in modo da agire a centinaia di chilometri di distanza, mentre i loro corpi erano immersi in profonda meditazione. Il Dalai Lama, allora sedicenne, era convinto che, grazie alla sua fede e all'aiuto dei riti prescritti, anche lui avrebbe imparato a produrre tale effetto a così lunghe distanze. Aveva desiderato mandarmi a Samye e dirigermi telepaticamente da Lhasa. Ricordo di avergli detto: «Bene, Kundün, se ci riesci, mi farò buddhista». Sfortunatamente l'esperimento non venne fatto, perché le ombre della catastrofe politica si stavano già accumulando. Ma nella mia mente quella conversazione è rimasta legata al monastero di Samye. Quello che ora vedevo dall'aereo era scioccante, anche se naturalmente lo sapevo da tempo: di Samye rimanevano soltanto le rovine; tutto il monastero era stato raso al suolo. Ora, mentre premevo il pulsante della mia macchina fotografica, ricordavo le tante fotografie che avevo scattato in questo centro religioso circa quarant'anni prima, fotografie ora di valore tristemente documentario. Stavamo planando sopra il Brahmaputra, in primavera quasi privo d'acqua, e ho riconosciuto i primi villaggi. Mentre mi accingevo a scendere dall'aereo pensavo che sicuramente avrei visto sventolare le bandiere di preghiera e sentito l'odore proveniente dai fuochi alimentati dal letame di yak. E invece ci venivano incontro dei cinesi con le loro uniformi identiche e semplici. E là, in quella monotonia militaresca, d'un tratto ho scorto una faccia timida, amichevole, familiare, tibetana. Era Drölma, ora quarantacinquenne, la moglie del mio vecchio amico Wangdü Sholkhang Tsetrung. Con esitazione ci siamo avvicinati l'un l'altra. Lei non sarebbe stata in grado di riconoscermi dall'aspetto: quando anch'io vivevo a casa Tsarong, lei era una bambina ben sorvegliata. Anche se naturalmente conosceva il mio nome e sapeva del mio arrivo, non poteva sapere ciò che stavo pensando. Mi osservava seria, e in seguito una giovane oftalmologa che viaggiava con me mi ha detto che quelli di Drölma erano gli occhi più belli e più tristi che avesse mai visto. Ho chiesto dolcemente alla riservata tibetana se, come ai vecchi tempi, potessi chiamarla ancora Drölma o se era meglio che mi rivolgessi a lei come signora Sholkhang. «No, no, per lei io sono ancora la vecchia Drölma» ha detto impetuosa, ma io mi sono reso conto che non era più la stessa. Mentre stavamo conversando in tibetano, ora un po' più rilassati, il nostro accompagnatore, la cosiddetta Guida nazionale di Pechino, è venuto a dirmi che, se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, avrei potuto chiedergliela. L'ho ascoltato a malapena; ho solo guardato Drölma e ho pensato alla sua formazione, alla sua vita e al suo destino. Stavo cercando i movimenti aggraziati, l'allegria e l'atteggiamento spensierato, caratteristiche tipiche delle donne tibetane; ma l'unica cosa che vedevo erano serietà e rassegnazione. Drölma era figlia del famoso Tsarong, che aveva sposato tre sorelle. Una di queste sarebbe diventata Rinchen Drölma Taring, autrice del famoso libro A Daughter of Tibet,* pubblicato in Inghilterra da John Murray. Un'altra delle mogli era la mamma di Drölma. La terza era Tsarong Pema Dolkar, che io avevo conosciuto bene a Lhasa e con la quale Tsarong aveva vissuto fino alla morte. Il grande Tsarong. Le relazioni di famiglia dei nobili tibetani sono enormemente complicate: consentono loro di sposarsi con le cognate e permettono numerose adozioni, di modo che un padre può diventare uno zio e una nipote una figliastra. Il primo grande nome della dinastia è quello di Tsarong Wangchuk Gyalpo; egli era nato nel 1866, aveva avuto dieci bambini ed era stato assassinato su ordine di un coreggente geloso, a Lhasa nel 1912. è noto come Tsarong I, e si procurò moltissimi nemici perché voleva mettere fine all'isolamento del Tibet dal resto del mondo. Introdusse parecchie innovazioni che fino allora a Lhasa erano sconosciute, come la macchina per cucire, la macchina fotografica, le sigarette e il tè dolce. Tsarong II, seconda figura importante della dinastia, non era figlio di Tsarong I, bensì di un fabbricante di frecce che aveva scelto il nome di Tsarong. Il suo vero nome era Chensal Namgang; era un favorito del tredicesimo Dalai Lama e diventò un uomo ancora più importante del suocero, Tsarong I. Ha creato senz'altro una certa confusione nell'albero genealogico della famiglia alla quale si è legato col matrimonio: prima ha sposato la seconda figlia di Tsarong I, poi la quarta, e infine la sesta: ossia tre sorelle una dopo l'altra. Il frutto del suo matrimonio con Pema Dolkar fu Dadul Namgyal, che diventò poi Tsarong III e a sua volta padre di un Rinpoche, nome legato a qualsiasi reincarnazione. Tsarong II era un amministratore straordinario, anche secondo gli standard occidentali, un importante diplomatico che ebbe il coraggio di opporsi al Dalai Lama e che sempre cercò di attuare riforme nel proprio paese, un uomo il cui saggio consiglio veniva ricercato per tutte le importanti questioni governative. Era uno che si era fatto da sé secondo l'accezione più moderna, e le sue capacità ne fecero una personalità di rilievo in tutti i paesi occidentali. Non dimenticherò mai la gratitudine che devo a Tsarong per avere aperto la sua casa a me e a Aufschnaiter e per averci aiutati a trovare una sistemazione a Lhasa. Dopo il 1956, quando molti nobili accompagnarono il Dalai Lama a Kalimpong, a est di Darjeeling, per celebrare il duemilacinquecentesimo anniversario della «manifestazione» del Buddha, Tsarong rimase in India. Egli e i componenti della sua famiglia non furono gli unici a rinunciare a quella favorevole occasione. Molti tibetani ricchi non ritornarono a Lhasa. Ma mentre parecchi di loro riuscirono a mettere su una nuova casa, il vecchio Tsarong non fu capace di dimenticare la sua terra natia. Nel 1958, nonostante gli avvertimenti della famiglia e degli amici, decise di ritornare nel Tibet, in armonia con il principio di molti tibetani coraggiosi: «Quello che nel tuo paese non ti piace, lo devi combattere dall'interno del tuo paese». Era inoltre convinto dall'esperienza che presto si sarebbe trovato in buone relazioni con gli «stranieri» che avevano occupato il suo paese, così come era sempre stato in buone relazioni con tutti gli altri stranieri che avevano visitato il Tibet. Quando Tsarong ritornò a Lhasa, ebbe un colloquio con Pala, primo tesoriere del Dalai Lama, che lo spinse a convincere il capo spirituale a non rimanere in Tibet. Pala gli disse: «Tu sei vecchio e sei esperto, dovresti parlarne col Dalai Lama». Tsarong, a quanto si sa, ne ebbe due di colloqui. Così, quando il Tibet venne attaccato dai cinesi, nel marzo 1959, la fuga del Dalai Lama era già stata organizzata. Lo Tsongdü, l'Assemblea Nazionale, riunita in seduta permanente nel Potala, il palazzo-fortezza del Dalai Lama, pretese che Tsarong - che era presente alla seduta - rimanesse, in quanto funzionario governativo tibetano esperto, ancora a Lhasa. Alcuni giorni dopo il Norbulingka, il giardino in cui è eretto il Palazzo estivo del Dalai Lama, fu bombardato, e Tsarong II venne imprigionato dai cinesi. Sono riuscito a entrare in possesso di un fotogramma di un film cinese che mostra tre nobili in una prigione mentre venivano fatti marciare con le mani in alto. Uno di questi era Tsarong II. Ho tenuto l'immagine in mano per molto tempo, cercando di intuire dai lineamenti familiari che cosa potesse pensare in quel momento. Nei suoi occhi di idealista, che quasi disperava del destino della propria nazione e che non poteva riconciliarsi con il fatto che al Tibet non venisse data la possibilità di mettere ordine nei propri affari, ho letto gravità e calma, ma anche derisione e disprezzo. Per lui, prima di qualsiasi altra virtù, veniva la giustizia e proprio questa era negata al suo popolo. Era uno di quei progressisti che sapevano benissimo che l'aristocrazia e la gerarchia monastica avrebbero dovuto cambiare per adattare il futuro destino del Tibet alle nuove condizioni del mondo, e abbracciò il motto di Garibaldi, che una volta gli avevo citato: «Se vogliamo rimanere come siamo, certe cose vanno cambiate». Per lui, vecchio eroe, non c'era futuro. La mattina del 14 maggio 1959, il giorno in cui avrebbe dovuto presentarsi davanti a un grande Tribunale del Popolo per venire umiliato davanti ai propri Sudditi, venne trovato morto sul materasso della cella della prigione. Forse si era suicidato inghiottendo alcune schegge di diamante che - come una volta mi aveva detto - portava sempre nascoste addosso. La morte gli risparmiò l'umiliazione e l'ingiustizia peggiori: un processo pubblico da parte di un Tribunale del Popolo. Al mio secondo arrivo a Lhasa, era primavera in Tibet e il sole era molto luminoso. Ho scattato fotografie e mi sono ricordato che nel 1952, quando ero tornato in Europa con le mie poche diapositive, nessuno credeva alla fedeltà dei colori. Tutti dicevano che la pellicola doveva essere difettosa e che i colori non erano reali: non poteva esistere un cielo così azzurro, nessuno specchio d'acqua poteva essere così verde. Ma ora, trent'anni dopo, scorgevo ancora una volta questi colori incredibilmente intensi, quell'incredibile azzurro, quel rilassante verde dei prati come mi era capitato di vedere il primissimo giorno sulle rive del Kyichu, affluente del Brahmaputra. Naturalmente, l'altitudine è un fattore importante nella formazione di questi colori e l'aria priva di polvere che c'è a quattromila metri li fa risaltare con un'intensità e una purezza particolari.
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