Waris Ahluwalia - Il più chic dei sikh In The Darjeeling Limited è il capotreno (da servizio di moda), nella vita disegna gioielli. l’indiano più cool di Manhattan al cinema è finito per caso: «volevo solo fare un piacere a un amico».
Waris Ahluwalia e Wes Anderson si sono conosciuti a una manifestazione pacifista a Manhattan quasi cinque anni fa ed è bizzarro: un corteo contro la guerra è l’ultimo posto dove immagineresti il mondano incontro fra un indo-newyorkese che disegna gioielli, attore a tempo perso e nottambulo a tempo pieno, e un regista emo-stralunato che in tutti i suoi film ci mette una storia di padri e figli. Eppure ci sta. Anderson ha un debole per gli orientali. Da ragazzo a Dallas, Texas, amava ciondolare in un coffee shop il cui nome sembra l’invenzione di un suo film: Cosmic Cup. L’anziano proprietario era un piccoletto indiano chiamato Kumar Pallana, classe 1919; molti lo conoscono meglio come Pagoda, l’indecifrabile amico di Gene Hackman nei Tenenbaum. Il Cosmic Cup esiste ancora, ma Kumar ora passa più tempo a Hollywood, gira con Spielberg (The Terminal), Turturro (Coffee and Cigarettes). Chissà che non capiti lo stesso anche a Waris. Non si era mai visto un capotreno elegante come lui a bordo del Darjeeling Limited, con la tunica e il turbante in tinta coordinata al colore delle carrozze, pistacchio e acquamarina. Il più chic dei sikh. Non è fra i protagonisti principali del film, non è un attore professionista (i wesandersoniani puri se lo ricordano però nell’equipaggio di Steve Zissou in Life Aquatic, dove diceva una battuta sola: «Luce cinque-sei»). Eppure negli ultimi mesi ha avuto più interviste e copertine di magazine fashionisti che tutto il resto del cast. È un personaggio. Totalmente wesandersoniano. Col suo cognome impossibile e i suoi splendidi turbanti, Waris Ahluwalia, 34 anni, nato in Amritsar e cresciuto a New York, attraversa la vita con eleganza di altri tempi. Disegna gioielli sotto il nome di House of Waris, che fa realizzare a artigiani di Roma e Bombay, perché a lui piace giocare con i colori, le pietre, «ma imparare a fare l’orefice? Non scherziamo. C’è già chi lo sa fare così bene». Lui in effetti non ha mai pensato di lavorare, «cioè, non quello che si dice un impiego. I miei volevano che diventassi un medico, io ho provato a studiare da avvocato. Ma la mia vera vocazione era divertirmi. Seriamente. Rave parties, feste, club. Volevo creare una rivista musicale, avevo anche il nome, Oscillate. Ho trovato il finanziamento e le persone per lo staff, poi ho capito che avremmo dovuto lavorare una quantità assurda di ore ogni settimana, e ho lasciato perdere». Da lì a diventare un’icona del cool, il passo è stato davvero un niente. Uno dei suoi aneddoti preferiti è quello di quando Willem Dafoe gli ha chiesto «posso dare il tuo numero di telefono a Spike Lee?», ed è finita con Waris nella parte dell’ostaggio sikh in Inside Man, a cui i poliziotti, nel clima paranoico post-11 settembre, portano via il turbante perché lo prendono per arabo. «Ma già dopo Life Aquatic la comunità sikh in America si era accorta di me. Mi hanno scritto, ringraziato, Hillary Clinton mi ha dato un premio per aver contribuito a dare un’immagine positiva dei sikh nei media. Ma io non ho mai voluto essere un modello per nessuno. In fondo cos’ho fatto? Solo un piacere a un amico».
Alba Solaro su Marie Claire
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