Bilal
"Bilal" è un'avventura contemporanea attraverso i deserti e il mare, dall'Africa all'Europa, dalle bidonville al mercato dei nuovi schiavi, vissuta in prima persona dall'autore. Fabrizio Gatti ha attraversato il Sahara sui camion e si è fatto arrestare come immigrato clandestino per raccontare gli atti eroici e le tragedie che accompagnano i protagonisti di una conquista incompiuta.
La recensione de L'Indice
Il direttore vede in tv le immagini dell'ennesimo sbarco di clandestini a Lampedusa. Chiama un redattore: "Fammi una bella inchiesta". "Posso andare sul posto?". "No, non c'è tempo, mi serve entro domani. E poi dobbiamo ridurre i costi". Il redattore si mette al lavoro: scarica dal computer tutti i dispacci d'agenzia e chiede in archivio gli articoli più recenti sull'immigrazione clandestina. Poi, ma solo perché è un giornalista scrupoloso, alza il telefono e chiama Lampedusa, cercando di ottenere qualche battuta con il sindaco e con qualche volontario delle associazioni che offrono assistenza ai clandestini. Frulla il tutto e in un paio d'ore l'inchiesta è pronta. Condita con qualche foto a effetto, farà sicuramente la sua figura. O forse no. Di sicuro questo, più o meno, è quanto accade nelle redazioni italiane, ma non solo, quando c'è da confezionare un'inchiesta. Per fortuna ci sono ancora delle eccezioni, come i reportage con cui Fabrizio Gatti ha raccontato, prima per il "Corriere della Sera" e poi per "L'espresso", il suo viaggio da infiltrato sulle rotte dei nuovi schiavi, i milioni di disperati che dall'Africa nera attraversano il deserto e il Mediterraneo per cercare fortuna in Europa. Quei reportage sono ora diventati un libro, Bilal, dal nome che il giornalista ha scelto per mimetizzarsi tra i clandestini. Cos'è Bilal? Non è una semplice raccolta di articoli, perché si legge come un romanzo, ma non è neanche un'opera di narrativa. Il riferimento più vicino forse è Gomorra di Roberto Saviano. Anche in Bilal l'asciuttezza nel racconto dei fatti si combina con una forte partecipazione emotiva del narratore. La rabbia, l'impotenza, il senso di colpa per non poter aiutare gli sventurati che il giornalista incontra nel suo viaggio pervadono tutte le pagine del libro. Il presidente americano Roosevelt definì i reporter che facevano inchieste muckrackers, perché "scavavano nel letame". Una definizione che si applica alla lettera al lavoro di Gatti, costretto con gli altri clandestini del Centro di permanenza temporaneo di Lampedusa a dormire in mezzo a liquami maleodoranti. Non è necessario arrivare a tanto per fare del buon giornalismo di inchiesta. Non è necessario rischiare di prendersi la malaria, di essere torturati, o di morire di fame e di sete in mezzo al deserto. Ma un po' più di coraggio ci vuole. Altrimenti per molto tempo ancora si sentirà dire che il miglior autore italiano di inchieste investigative è un pupazzo rosso che si fa chiamare Gabibbo. Eugenio Arcidiacono
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