Gli otto gradini
recensione di Bruno lo Turco per la Associazione di Meditazione di Consapevolezza In quest’opera, che si pone come un'ampia introduzione di carattere squisitamente divulgativo al buddhismo tibetano, Lama Surya Das utilizza una lingua assai semplice, rivolgendosi a un pubblico Occidentale che sia il più vasto possibile. Sebbene i riferimenti alla parte teorica non manchino, l'autore si occupa soprattutto della parte squisitamente pratica, ossia di come mantenere una condotta etica dal punto di vista buddhista nelle varie circostanze della vita (si menzionano vari casi realmente accaduti) e di come praticare. Quanto a quest'ultimo punto, nell'opera è esposto, sia pure brevemente, un numero sorprendentemente grande di tecniche di meditazione, formale e in azione, insegnate da tutte le scuole; talune spiegazioni risultano, nella loro semplicità e discorsività, singolarmente efficaci. L'autore appartiene sì a un lignaggio di maestri dello Dzog-chen, ma questa particolare tendenza non appare nell'opera favorita, in ambito lamaista, in alcun modo. Inoltre, la prospettiva assunta da Lama Surya Das è decisamente ecumenica, se si considera l'intero buddhismo con tutte le sue scuole, ed eclettica nell'ambito più generale delle religioni mondiali, senza che ciò sembri nuocere alla specificità del suo proprio punto di vista. Questo fa sì (a dispetto del titolo secondario) che il libro funzioni bene anche come introduzione al buddhismo contemporaneo in generale. Anche la Vipassana, ad esempio, vi è sommariamente esposta, e sono nominati insegnanti che i lettori di Sati conosceranno bene, come Jack Kornfield, Sharon Salzberg, Joseph Goldstein (p. 277). Quanto all'eclettismo dell'autore, questi, cresciuto peraltro in una famiglia di tradizione ebraica, non si perita a citare, per esempio, il Baal Shem Tov (p. 159), il grande iniziatore del movimento hasidico (ed è probabilmente l'unico lama ad averlo mai fatto). La vastità dei temi toccati si risolve forse in un andamento del discorso talora un poco sconnesso, talora un poco diluito, ma questo non va a discapito dell'interesse che l'opera nel suo complesso può suscitare. Una certa incoerenza di fondo è forse dovuta al fatto che il libro potrebbe non essere altro che una raccolta di scritti preesistenti riadattati per l'occasione (fatto che a ogni modo non è esplicitamente ammesso). Un appunto sull'edizione italiana: si può forse tollerare in un'opera divulgativa l’omissione dei segni diacritici, ma i curatori italiani dovrebbero tenere conto del fatto che le parole sanscrite hanno un genere; ci piacerebbe in futuro non dover più leggere espressioni come "… dà rilievo al sunyata" (p. 61; si intendeva "… alla sunyata") ecc.
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