Dalla presentazione a cura di Alberto Guarnieri
A volte alcuni libri, quelli più curati, con le foto da cui si fa’ fatica a staccare lo sguardo, stampate sulla carta giusta, e i testi da leggere e rileggere, “questi” libri sono i più difficili da definire e da catalogare: quello che avete ora tra le mani rientra in questa speciale categoria. Sfogliatelo, leggetelo e guardatelo con l’attenzione che merita e poi provate a chiedervi se sia un libro di viaggio, un racconto fotografico, un libro di medicina, un racconto corale, un testo etnico-esotico, o cos’altro. “Questo” libro è prima di tutto bellissimo, curato ed intenso, sia per la parte fotografica che per quella scritta e forse non è niente di tutto quello che abbiamo provato a definire prima o, forse, meglio, è un po’ di tutto questo. Certo è che raccoglie e descrive una esperienza che difficilmente si potrà ripetere nei modi, nelle emozioni e nel valore di quanto fatto. Prendetelo quindi per quello che è, un libro unico, senza categorie, che vi racconta un’esperienza irripetibile sia per chi ha viaggiato e scritto di quest’angolo di Tibet dentro l’India, sia per i Tibetani che hanno accolto questi medici europei, venuti anche per dare una mano, e che sono stati aiutati a capire ed a entrare in un mondo per loro ignoto e così lontano.
Un estratto dal libro
All’intorno, altre nicchie più piccole, ma di dimensioni diverse, dai pertugi rotondi e bui. Dentro, la simbologia della fecondità è subito evidente. Un fittone, lingham, della stessa pietra grigia del tempio, si erge, ma sarebbe più esatto dire spunta, impudico e sfacciato sopra ad un manufatto, la yoni, ovale o circolare, a seconda del tempietto che si osserva, con bordi sagomati leggermente verso l’esterno, languidi e offerenti alle invocazioni e alle preghiere dei propri sudditi, bisognosi dell’attenzione della propria dea. Sono tutti più o meno uguali e il perché della venerazione di questo Tempio appare a tutti scontata. Si avvicina un ragazzo, un giovane indiano. Ha un’aria afflitta e mesta, o semplicemente è immerso nelle sue meditazioni. Non fa caso a noi, anzi ci ignora completamente. La sua meta è il tempio grande, con la statua aurea dalle tante braccia. Accende un incenso e un’altra candela rossa, lascia cadere zuccherini e fiori di anemoni e crisantemi nani. Si immerge in una preghiera cantilenante e accorata, ci sembra. Si tocca ripetutamente la fronte e le labbra. Crede veramente in quello che fa e dice. Lo si percepisce dalla sua malinconia, che sfocia presto in una mesta determinazione di ripetuti ringraziamenti e genuflessioni davanti alla statua mentre snocciola preghiere e salmi. È una bellissima immagine. Un’altra delle tante che porterò con me.
Un altro estratto dal libro Ma ora siamo arrivati qui, alle pendici dell’HImalaya, per portare il nostro piccolo contributo a questa popolazione cosi provata dall’invasione cinese del 1959, da veder aumentare significativamente il rischio di malattie vascolari legate allo stress e al disagio di vivere lontano dalla propria terra e dalle loro consolidate abitudini di vita. Melchisede ed io, ci incamminiamo nell’aria fresca e mattutina, finalmente libera dalle gocce untuose dell’afa delle città di pianura, eccitati ed impazienti di cominciare. Tutto e’ pronto: alle 9 c’è già una lunga fila di tibetani nell’attesa di sottoporsi agli esami medici previsti. Ordinati e silenziosi si fanno guidare dalle infermiere locali, che ci danno un prezioso aiuto nel difficile compito di tradurre nella loro lingua il nostro inglese, a volte davvero approssimativo, consentendoci di svolgere un lavoro spedito ed efficace. Si passa dal prelievo venoso per la determinazione di glicemia e colesterolo alla misurazione di alcuni parametri vitali (pressione arteriosa e frequenza cardiaca) che, insieme ad un’anamnesi accurata sullo stile di vita (attività fisica, alimentazione, abitudine tabagica, percezione soggettiva dello stress quotidiano) e alla familiarità per patologie cardio e cerebrovascolari,ci permettono di calcolare percentualmente il rischio di questa popolazione di ammalarsi nei successivi dieci anni. La partecipazione dei profughi al nostro progetto è contagiosa: durante la settimana di screening visitiamo quasi 800 persone, sempre armati di un grande entusiasmo per questa esperienza così singolare! Una partecipazione aldilà delle nostre più rosee aspettative, testimonianza di un’accoglienza da parte della popolazione locale che ci gratifica non poco! Mi tornano alla mente i volti, segnati dalla fatica e dal tempo, di alcune persone che ho visitato durante questa esperienza, unica ed irripetibile,che lascerà un segno profondo in ognuno di noi. Volti di un popolo in esilio che vive in condizioni disagiate lontano dalle proprie radici ma che ci ha ricordato come si possa comunque essere dignitosi e fieri della propria identità! Due esempi per tutti: Un anziano di 73 anni proveniente da Kham scappato nel 1960. Kunchok Sangpo mi racconta: “In Tibet vivevo vicino al confine cinese. Nel 1947 i cinesi iniziarono ad entrare nella nostra regione e riuscimmo a convivere con loro per alcuni anni. Essi volevano farci credere di essere lì per aiutarci, poi lentamente iniziarono ad imporre controlli sui nostri spostamenti senza una ragione precisa fino a mostrare chiaramente le loro vere intenzioni. Nel ’58 decisi di fuggire. In seguito venni a sapere che durate la resistenza mio padre era stato arrestato ed era morto in prigione. Mia sorella minore morì di fame, mia sorella maggiore scomparve, non ho mai saputo cosa le sia. successo. Il monastero Lung Khar nel nostro villaggio fu distrutto, il Lama del monastero morì in un attacco aereo durante il quale furono scaricate grosse pietre sull’edificio”. |