I DONI DEL MEKONG Con chi ha fatto Alberto Arbasino questo viaggio in Indocina, lungo il fiume Mekong, che dopo avergli ispirato i bellissimi reportages apparsi proprio su queste pagine, ora ci propone in volume. Lo ha accompagnato di certo quel Goffredo Parise che all'epoca della guerra maledetta e sporca volava in elicottero sulle risaie di un paese da Apocalisse adesso. E anche l'Andrè Malraux di La Voie Royale che nel 1923, rimasto senza soldi, disse alla moglie Clara: ce ne andiamo in Cambogia prendiamo qualche bassorilievo dai templi, lo rivendiamo e viviamo tranquilli in America per due o tre anni. Cosa che poi fece davvero ma venne incriminato e passò sei mesi agli arresti in quell' albergo Manolis che è proprio nel centro di Phnom Penh e che ora è un rudere dove coabitano cinquanta famiglie più porci e galline. O forse Arbasino lungo il Mekong ci è andato con Marguerite Duras: lei questo fiume lo ha sempre vagheggiato dal tempo di L'amante, quando incontrò, proprio scendendo dal battello, il suo primo amore cinese. Cinese, per lo più del nord e ricco, sarebbe a dire il massimo per una giovinetta povera e che vive in Vietnam, dove, lo dice Graham Greene, vedi Un americano tranquillo, avere una ragazza a letto è come avere un uccellino, fragilissimo, inconsistente. E questa cosa di avere un uccellino a letto vale anche per le signore, caso mai ci provino con uno del posto, mentre invece i cinesi del nord sono di tutt'altra tempra. Ma anche Pierre Loti, "le pélerin d'Angkor" (Un pellegrino ad Angkir, trad. Italiana), deve aver accompagnato Arbasino nella giungla fino al Bayon, quel Loti che quando, tra liane avviluppanti e radici gigantesche che soffocano i templi, si trovò al cospetto dei faccioni ridenti di Brahma, fu preso da un turbamento panico perché pareva che sorridessero a lui, proprio a lui e soltanto a lui. Ed è senza dubbio evidente che Arbasino ha percorso lunghi tratti di cammino anche con Pol Pot perché pur imbattendosi, quasi fosse il suo destino, in "ninnoli, birignao e piccole grazie locali", ha incontrato anche teschi, teschi di uomini donne e bambini a migliaia, allineati perfettamente in ordine di grandezza - cioè sotto i teschi di uomini, in mezzo quelli di donne, in cima i teschietti di bambini - sui grandi ripiani di una pagoda, a pochi chilometri da Phnom Penh, un "killing field" dove mucche magrissime si aggirano in cerca d' erba fra fosse comuni aperte e subito, estratte le ossa per il sacrario, ricoperte. Quel genocidio, che venne perpetrato dal 1975 al 1979, si pensava che fosse l' ultimo prima del Duemila; e invece no, altri ne abbiamo visti, altri ne vedremo in questi duemila giorni che ancora mancano per uscire dal secolo che è stato del colonialismo, del fascismo e del comunismo e che ha fatto anche in tempo a essere il secolo di tutti i "post e ex" e anche di qualche truce "neo". Così l' Arbasino del Mekong non è un viaggiatore solitario ma si muove con tanti ideali compagni lungo una Indocina che oggi è un Oriente tragico e tristissimo, come tutti gli Orienti diventati una discarica degli orrori dell' Occidente, luogo prodigo di massacri e molto poco frivolo, al punto che questo libro sarebbe un nudo rapporto sulle atrocità avvenute e su quelle che stanno in agguato se si togliessero tutti quei vezzi stilistici che sono propri di Arbasino: toglierli si fa per dire, non bisogna togliere niente ma gustare aeroportini e bonzetti, cocci e coccetti e buddhini rotti dietro cancellini, tutto questo elenco di immagini sempre miniaturizzate, che è poi un sistema per autoimmunizzarsi, per non cadere mai e poi mai nel retorico-patetico-impegnato, ma invece sempre librarsi con colpi d' ala verso i cieli sicuri del déjà-vu; per cui il Mekong non è meglio del delta del Po, è più sicuro per una "crocerina" del Nilo e quasi altrettanto bello (ma subito Arbasino aggiunge "si fa per dire..."). Perché il Mekong pare proprio che non gli piaccia: e perché mai dovrebbe piacergli? Oggi ci sono tanti posti orrendi al mondo, uno di questi è Saigon, alla foce del Mekong. Che si va a fare in una città dove i mutilati di guerra si trascinano su carriole di assi sconnesse, davanti ai grandi alberghi del centro? Loro, i vincitori, chiedono l' elemosina ai vinti, cioè ai veterani francesi e americani che tornano da turisti sui luoghi della loro sconfitta per nostalgia dei loro vent'anni da guerrieri, vecchissimi i francesi perché battuti a Diem Bien Phu nel 1954, meno decrepiti gli americani perché sconfitti appena nel 1975, quando Saigon cadde e non solo divenne comunista ma fu anche ribattezzata Città di Ho Chi Minh. E oggi a Saigon ci sono funzionari del regime che è ancora comunista anche se si apre sempre di più al mercato, che ti dicono: "Agli invalidi di guerra fatela l'elemosina, noi non abbiamo soldi per le pensioni". Bancarotta, quindi, bancarotta per tutta l'Indocina, cioè Vietnam, Laos e Cambogia, paesi tanto diversi ma che l'avventura coloniale francese aveva unificati e che poi ha unificati una guerra. Ma il Vietnam Arbasino lo sfiora appena, anche se pure questa terra, specie al sud, è "un dono del Mekong", forse perché ha capito che tra il Vietnam tanto confuciano da parer quasi, culturalmente parlando, un "dono della Cina", e la Cambogia tanto buddista invece, e dolce e pigra quanto il Vietnam è duro e alacre, c' è poco in comune, soltanto il Mekong e un'altra guerra, anzi due. Il Vietman infatti invade la Cambogia, per liberare il popolo cambogiano dalla dittatura di Pol Pot, e siamo nel 1978: e la Cina allora invade il Vietnam per punirlo, dargli una lezione, e siamo nel 1979, appena ieri cioè, "alla faccia" scrive Arbasino "di chi predica le armoniose integrazioni terzomondiste e antirazziste e politicamente corrette fra i popoli dove l'eccidio costante vige pacifico da secoli". E allora, come se i rantoli di questi eccidi gli ansimassero sul collo, Arbasino percorre veloce e eccitato con una grande passione che maschera però spesso da stizza, un itinerario cultural-politico per luoghi che sono stati emblema della nostra storia recente- i primi massacri in diretta sui nostri teleschermi all' ora di cena- teatro delle guerre più "sporche", quella dei francesi quella degli americani, e mettiamoci pure quella dei cinesi, e degli eccidi locali più atroci. Perché non dimentichiamo il milione e passa di morti di Pol Pot, tutti cambogiani, l'autogenocidio di un popolo, cosa mai vista perché in genere ce la si prende sempre con l'altro, il diverso, in Cambogia no, oggi come oggi ancora si salta sulle mine seminate nei campi dai Khmer Rossi, e si muore, o si perdono gambe e braccia. Arbasino percorre dunque questo itinerario guardandosi alle spalle, sottolineando l' incongruo di oggi, ma paventando anche il futuro prossimo, quello dell' invasione turistica: e già si imbatte nelle avanguardie di questo esercito di devastatori - un gruppetto di spagnoli alla Almodovar - "col trip delle inquadrature suggestive e il litigio sugli esposimetri"; ma alla fine gli tocca di incontrare davvero il Sublime a Angkor, tra le rovine degli antichi templi khmer. E si dibatte per non cadere nella retorica anche se gli scappa detto che "si aspettava da almeno trent'anni questo momento luminoso, questa curva all'alba dopo la boscaglia...". Ma anche davanti a un tanto atteso Sublime gli viene fatto di pensare che sì, verranno anche qui le masse, "e le maggioranze verranno qui a chiedere dove l'ha data o non l'ha data Marguerite Duras". Perché anche loro, le masse, ormai viaggiano in compagnia di reminiscenze letterarie e certo a Angkor Vat ci sarà da qui a un anno qualcuno che si domanderà: ma come ha fatto Arbasino a scansare tutte queste mine? RENATA PISU 19 ottobre 1994 La Repubblica |