Kerouac alla ricerca della saggezza recensione di Luca Briasco
Il 2009 è un anno ideale per guardare al passato, e in particolare a quel fenomeno culturale e mediatico che, per molti lettori italiani, è stato la beat generation. Esattamente quarant'anni fa, ormai isolato dalla comunità letteraria e dallo stesso gruppo di poeti e narratori insieme ai quali si era affacciato alla ribalta internazionale, moriva Jack Kerouac, lasciandosi alle spalle un solido nucleo di romanzi rapsodici, scritti quasi tutti nella prima metà degli anni Cinquanta e pubblicati in rapida successione a partire dal 1957. Ed esattamente cinquant'anni fa, per Mondadori, usciva la traduzione del suo capolavoro, Sulla strada, preceduta da una prefazione di Fernanda Pivano che avrebbe costituito, per migliaia di lettori, una sorta di breviario per la comprensione dell'avanguardia Beat. Proprio in questi giorni, negli Stati Uniti, viene pubblicato il testo originale di On the Road, il mitico «scroll paper» sul quale, in tre settimane di inesausta furia creativa, Kerouac avrebbe dato una prima - e già quasi definitiva - forma alla storia di Dean Moriarty e Sal Paradise (l'edizione italiana è prevista per il prossimo anno), mentre è dello scorso anno la pubblicazione di un curioso romanzo inedito, scritto a quattro mani da Kerouac e Burroughs, e anch'esso di imminente traduzione in Italia. In attesa di dare alle stampe lo «scroll» di Sulla strada, Mondadori ci propone un'altra, piccola chicca, finora inedita a casa nostra. Tradotto con impegno quasi autoriale da Tommaso Pincio, Il libro del risveglio è, letteralmente (e come ci suggerisce il risvolto di copertina), una biografia letteraria di Siddharta Gautama, il Buddha, frutto di un attento lavoro di studio e collazione di fonti, che Kerouac non manca di citare per esteso, in una nota di apertura. Un'opera che consente dunque di focalizzare l'attenzione su uno tra gli elementi più dibattuti dalla critica: la natura del buddhismo di Kerouac, la sua autenticità e l'impatto complessivo sulla sua produzione narrativa. Come ci viene ricordato nell'ampia prefazione al Libro del risveglio, firmata da Robert Thurman, professore di studi sul buddhismo indotibetano alla Columbia University, l'adesione al buddhismo da parte di Kerouac, risalente alla fine degli anni Quaranta, è stata a lungo letta come un atto di facciata, e la sua fede come un dato superficiale, una patina orientalista che non avrebbe mai intaccato il solido nucleo del cattolicesimo ereditato dalla famiglia franco-canadese. Un giudizio di tal fatta finisce inevitabilmente per tradursi in una distinzione (anche qualitativa) tra i primi due romanzi della stagione beat, nei quali l'influsso del buddhismo appare parziale e non pervasivo (Sulla strada, ovviamente, ma anche I sotterranei), e le opere successive, a partire da I vagabondi del Dharma, nelle quali prevarrebbero, anche sul piano stilistico, una dimensione meditativa e uno slancio mistico spesso «di facciata». Sottoposto alla lente di ingrandimento di uno specialista come Thurman, il buddhismo di Kerouac si rivela in realtà ben più radicato, e gli studi che lo sostengono molto più rigorosi di quanto la critica abbia lasciato intendere. È semmai vero che Kerouac si è discostato con decisione dalla variante zen e giapponese del buddhismo praticata da quasi tutti i suoi compagni di avventura beat (in particolare, da Gary Snyder), e dall'etica samurai che la sottende, privilegiando - forse più per propensione caratteriale che per scelta ideologica - una variante più passiva e meditativa, centrata sui valori della misericordia e della compassione e quindi più facilmente riconducibile, in una sorta di personalissimo sincretismo religioso, alla forte matrice cristiana della sua formazione. Meditazione, fuga mistica dall'esistenza e dai suoi mali, ricerca di una saggezza che trae linfa dalla misericordia e dall'empatia con tutte le forme di vita, indipendentemente dal rispettivo karma: questi sono gli elementi portanti del Libro del risveglio, ed è proprio quando si sofferma a elencarne le ragioni filosofiche che Kerouac riesce meglio a distaccarsi dalla nobile retorica celebrativa che pervade il libro e a raggiungere momenti di un lirismo personale e toccante. Tornando allora alla distinzione tra un primo e un secondo Kerouac, la lettura del Libro del risveglio e la ricchezza del lavoro di ricerca e riflessione che emerge da questa atipica ma a suo modo rigorosa biografia consente di rimuovere molti dubbi sulla complessità e la profondità della «conversione» culminata nei Vagabondi del Dharma. Ciò non comporta però automaticamente una trasformazione nel giudizio critico. Il misticismo «passivo» che Kerouac mutua dall'esempio del Siddharta Gautama si riflette nella sua scrittura e nelle strutture delle sue narrazioni, sottraendo a esse la frenesia hipster che faceva la grandezza, per esempio, dei Sotterranei, e lasciando prevalere una dimensione pacificata e morbida. È come se il dualismo tra il furibondo vitalismo di Dean Moriarty e la pigrizia contemplativa di Sal Paradise, vero e proprio principio dinamico di Sulla strada e ragione autentica del suo impatto su generazioni di lettori, si fosse definitivamente sbilanciato dalla parte di chi contempla, con una voluttà che rischia sempre di sprofondare nella silenziosa autodistruzione, un mondo irreparabilmente corrotto. Libero dalla circolarità disperante dal karma, ultima, atipica ma esemplare incarnazione del mito tutto americano del viaggio e della frontiera, iperattivo e bramoso di vita, Dean Moriarty resta forse il più grande dono di Kerouac alla letteratura contemporanea; non uno solo dei «vagabondi» e dei «mistici» che, nei romanzi successivi, gli hanno rubato la scena, ha più saputo farne rivivere l'inconfondibile fascino. |