Camminare, una rivoluzione
"Avviso ai lettori. Lasciate stare. Se cercate insegnamenti sul camminare all'ultima moda, con tanto di lezioni, corsi universitari e relativi professori, oppure sul camminare come cura di sé, o infine pagine e pagine di resoconti di camminate che si perdono invariabilmente tra il noioso, l'elegiaco o il paranoico, ripeto a scanso di equivoci: lasciate stare. Questo libro non fa per voi." Inizia così l'itinerario che Adriano Labbucci suggerisce al lettore e che del camminare si serve come di una bussola per percorrere un paesaggio insieme geografico e mentale, alla ricerca di punti di riferimento, alla scoperta di un modo diverso per impostare il nostro rapporto con gli altri e con il mondo che ci circonda. Al punto che camminare non solo è un'attività ormai poco praticata, ma spesso è anche guardata con sospetto e fastidio; un atteggiamento che può sfociare in frasi paradossali come questa: "Il pedone rimane il più grande ostacolo al libero fluire del traffico". Potrebbe sembrare una battuta di Woody Alien, ma in realtà è stata pronunciata da un gruppo di urbanisti consulenti del sindaco di Los Angeles: si tratta, scrive l'autore, dell'"espressione tragica e surreale di quel mondo capovolto che è il nostro."
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LIBERI DALLA SUPERBIA
È un pericolo per Adriano Labbucci, che parla apertamente, fin dalla prima pagina del suo Camminare, una rivoluzione (Donzelli 2011, pp. 149, euro 15), di atto sovversivo, alternativo al modo di pensare e di agire dominante. Citando Roland Barthes, per cui il camminare è il gesto più comune e quindi più umano, Labbucci ci invita a ragionare su un'etica differente, dal momento che «chi cammina non è mai un isolato», non ha barriere da opporre, è naturalmente costretto a domandarsi chi siamo, dove siamo, dove siamo diretti, affermando «la nostra irriducibile condizione di esseri umani in un mondo sovrastato dalla tecnica». Il camminatore si deve liberare, per procedere, della superbia, della pretenziosa convinzione che si possa essere autosufficienti, e non teme di chiedere aiuto a chi incontra: se il suo rapporto con la terra, l'humus, è solido, è l'umiltà a spingerlo avanti, insieme al desiderio di possedere sempre meno oggetti, di «portar via solo ricordi e lasciare nient'altro che orme». Camminare ci restituisce la libertà non di produrre o consumare, bensì di stare al mondo con le antenne tese, con la curiosità, l'attenzione, la disponibilità necessarie a essere cittadini a tuttotondo, vulnerabili ma mai docili o addomesticati. C'è sempre, sottolinea l'autore, una meta, una Itaca al quale volgere, condividendo con Bruce Chatwin l'importanza del ritorno, la risposta alla nostra «irrequietezza», un tornare sui propri passi avverso all'idea della perpetua ricerca della novità. Chi cammina «ha tanti buoni e fondati motivi per non credere alle sorti magnifiche e progressive del futuro», ne fa esperienza diretta sulla sua pelle mentre incede nelle ferite aperte del paesaggio, negli spazi pubblici depredati dai privati senza scrupoli, con l'orecchio di chi vuole ascoltare i luoghi senza volere impadronirsene. E il saggio di Labbucci induce a interrogarci, con il sostegno di tante testimonianze di pensatori e scrittori, sul grado di democrazia della nostra società, spronandoci a metterci in cammino per invocare - come suggerisce James Hillman - non solo giustizia sociale ma anche giustizia estetica.
Luigi Nacci - il manifesto 21/09/2011 La quieta ribellione del camminatore |