Filosofia del viaggio
Nell'era di Internet, delle comunicazioni rapide, del turismo low cost, della più veloce tecnologia audio e video, quando il mondo, tutto il mondo, sembra a una manciata di minuti da noi, pronto a essere guardato, toccato e mangiato; in mezzo alla folla, armata di fotocamere per catturare nient'altro che uno scatto di cartoline già viste, calzata con scarpe comode per camminare lì dove non può non aver camminato, e pesante di souvenir riportati a casa come trofei, giunge, inaspettata, una domanda. Esiste ancora il viaggio? E che cos'è il viaggio, chi è il viaggiatore? Ci ricordiamo da dove viene la voglia di aprire un atlante, l'eccitazione di puntare il dito su una qualunque regione del globo, la voce straniera che ci ingiunge di andare? Michel Onfray è qui con questo piccolo libro per aiutarci ad aprire nuovamente gli occhi e guardare alla scoperta, per mostrarci come sia possibile, senza aver programmato il come e il perché, chiudere uno zaino, girare la chiave nella toppa e voltare le spalle alla porta di casa per lasciare spazio ai sensi ritrovati che, soli, liberi da guide e manuali, ci condurranno a scoprire i colori dell'altrove e gli odori dell'ignoto.
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Da "L'indice" All'alba della civiltà, il libro della Genesi pone l'odio tra due fratelli: Caino, il contadino stanziale, e Abele, il nomade mandriano favorito da Dio. Sin d'allora, la dialettica tra nomadismo e sedentarietà accompagna, secondo il filosofo francese Michel Onfray, tutta la storia dell'umanità, che parrebbe ripetere all'infinito l'eterna violenza delle civiltà sedentarie sulle vite nomadi, dall'aspetto sfuggente e barbaro. Schierandosi decisamente dalla parte dei vagabondi, Onfray propone una "filosofia del viaggio" che riassume – in modo piacevole ma forse poco originale – il pensiero di chi ha descritto e teorizzato l'arte di viaggiare "dopo la fine dei viaggi". Raccogliendo la lezione di illustri precursori, da Bouvier a Chatwin, da Deleuze a Brunet, la teoria poetica di Onfray parte dalla classica equiparazione tra viaggio e letteratura, che – ripetuta in modo schematico – potrebbe apparire contraddittoria. Se ogni viaggio nasce dalla lettura di un atlante, di un romanzo o di una poesia, il viaggiatore che non voglia recarsi da turista o da colone nei luoghi a lungo immaginati e desiderati deve però dimenticare le sue letture, per non applicare ai luoghi e alle civiltà che incontra i propri parametri culturali. Il "viaggiatore-poeta" che Onfray crea prendendo a modello se stesso e la "poetica dello spazio" di Bachelard corre però un rischio. Se il viaggio trascorre frettolosamente, nell'attesa di tornare a casa per scrivere le proprie impressioni e il mondo si riduce a quel che si vede dal finestrino dell'aereo, le memorie del viaggio saranno inevitabilmente ricordi di egotismo. Dal nostro atlante letterario, zeppo di viaggiatori sentimentali, si alza allora per contrasto un'altra voce poetica, quella di un pastore errante dell'Asia. Quel pastore, come i grandi viaggiatori del Novecento, approfittava del viaggio per porre alla luna le domande essenziali sulla propria realtà e sulle condizioni in cui tutti gli individui, e non solo lui, sono costretti a vivere. Stefano Moretti |