Ogni luogo, indiano o inglese, reale o fantastico, diventa esemplare e simbolico, come i fantasmi femminili che popolano la sua mente: la nonna amatissima, la splendida cugina Ila,l'amica inglese May. E in questo narrare - un sottofondo lirico e ispirato, quello che Conrad chiamava «il soffio dei poteri sconosciuti che foggiano i nostri destini» - ripetutamente si spostano e si ricompongono i confini fittizi dello spazio e del tempo, le linee immaginarie e violente che gli uomini inventano per mettere ordine nella vita.
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recensione di Amoruso, V., L'Indice 1991, n. 2
Questo bel romanzo dell'indiano Ghosh è certamente una perfetta antitesi di quello di Ishiguro, nel rapporto che lascia intravedere con la tradizione narrativa inglese. Là dove Ishiguro si identifica fino alla mimesi, Ghosh dichiara la propria indiretta fedeltà a quell'immaginario offrendoci un'immagine complessa di quella grande, variegata periferia di un ex impero che è stata, e soprattutto è, l'India moderna . Il titolo, credo volutamente conradiano, indica esattamente un affrancamento dalla frontiera di una semplice ambiguità, per restituirci il volto di un universo romanzesco poliedrico, delle sue ombre plurali e del suo sofferto ma sicuro 'coming of age'. "Le linee d'ombra" è innanzi tutto la storia di un'adolescenza che cerca di ricatturare il senso, e il segreto, di una saga familiare, dominata da luoghi remoti e prossimi come Londra, Dacca, Calcutta, personaggi dell'infanzia avvolti nella luce di una privata leggenda e di un esistenziale arcano come Tridib, la nonna austera, i parenti vissuti fra un continente e l'altro. In questa intensa affabulazione, che mescola e confonde tempi e spazi, tutto precipita in un frammentato presente, nel quale il passato è attualizzato ma lo stesso presente di chi narra è sospinto nelle plaghe della lontananza e del mito. La ricerca soggettiva di un'identità si trasforma anche in epopea di una collettività e di una nazione che afferma con sé stessa la nascita di una nuova tradizione. Per quanto idiosincratici siano i volti e i temi di questo straordinario arabesco narrativo, Ghosh sa restituirceli anche nella loro anonima e archetipica coralità, proprio attraverso l'uso liberissimo e sapiente di un modulo romanzesco "modernista", nel quale i fili delle trame sono naturalmente multipli, madreporici, intessuti dal dubbio e dalla dislocazione straniante delle coordinate spaziotemporali. Realismo e romanzesco sono, insomma, coniugati naturalmente, un po' come accade in quel bellissimo film indiano che è "Salaam Bombay". È certo significativo che questa funzione "epica" del romanzo torni a nuova vita là dove, e quando, si tratti di dar forma e voce alla raggiunta maturità di una civiltà che è del tutto metropolitana al pari di tante altre dell'occidente: per questo essa appare qui come centro e periferia di sé stessa e può, grazie a questa consapevolezza, evocare Londra come uno e uno solo, dei tanti punti dello spazio e della conoscenza, al pari di Calcutta, Dacca, o di tutte le città che il protagonista unisce fra loro con un compasso sull'atlante donatogli dal favoloso Tridib.
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