Estremi orienti
In questi intensi reportages Ghosh parte alla scoperta di Cambogia e Birmania, per studiare le terribili ferite che la storia di questo secolo ha inferto ai due Paesi. Oltre agli interessi storici e culturali, sono anche le ragioni politiche a spingere Ghosh, narratore e antropologo, alla ricerca. In Cambogia, tra il 1975 a il 1979, è avvenuto uno dei più spaventosi genocidi della storia. Pol Pot, studente simpatizzante del marxismo a Parigi, poi feroce comandante dei Khmer rossi in patria, aveva scelto a modello il Robespierre che nel dramma di Buchner dice: la virtù è terrore, il terrore virtù. Il caso della Birmania è forse meno tragico ma altrettanto importante per il discorso di Ghosh.
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Recensione di Manferlotti, S., da L'Indice 1998, n. 5
Amitav Ghosh è giovane, ma già vanta al suo attivo opere di vasto respiro, tra cui fanno spicco i quattro romanzi:" Il cerchio della ragione" (1986), "Le linee d'ombra" (1988), "Lo schiavo del manoscritto" (1992), "Il cromosoma Calcutta" (1995), tutti pubblicati da Einaudi. Come avviene per tanta narrativa del tardo Novecento, è però difficile inscriverli in un genere ben definito. Essendo Ghosh antropologo di vaglia oltre che scrittore creativo, e uomo cosmopolita per elezione più che per nascita, la sua pagina esibisce fin dagli esordi una commistione di materiali eterogenei che in ultima analisi costituisce la nota distintiva del suo stile. Scrittore liberale nel senso più alto del termine, e quindi mai restìo a palesare i suoi convincimenti, Ghosh vuole però che sia il lettore a ricavare da solo dalla narrazione quei messaggi che costituiscono uno dei significati fondamentali del testo. Il confronto fra passato e presente reca con sé una serie di giudizi impliciti, e in quanto tali più impietosi, nelle due prose "Danzando in Cambogia "e" Birmania", unite in "Estremi orienti", un volume che Anna Nadotti, amica di Ghosh e sua voce nel nostro paese, ha curato con l'amoroso rigore che le è abituale. Una nota informativa ricorda che "Danzando in Cambogia" era già apparso nel 1993, sempre a cura di Anna Nadotti, per le edizioni Linea d'Ombra. Dirò subito che è quest'ultimo testo a primeggiare da un punto di vista tanto formale che concettuale. La scelta dell'episodio di cui vive il racconto è di per sé felicissima. La rievocazione del viaggio in Francia compiuto nel maggio del 1906 dal nutrito corpo di ballo tradizionale della reale corte di Phnom Penh mette infatti in moto una serie di riflessioni che vanno ben oltre i pur chiari giudizi che Ghosh infine verga sulle vicende della Cambogia contemporanea. La danza emerge fin dall'inizio come l'esatto contrario della guerra civile e della divisione fra le genti. La complessa semiotica dei costumi e dei gesti, il più rarefatto linguaggio della musica, il senso ultimo della plasticità dei corpi fermi o in movimento, invitando alla contemplazione dell'armonia e alla interpretazione di tutto ciò che si vede e si sente, instaurano un dialogo che per definizione può solamente essere pacifico. Il fatto poi che le danzatrici fossero accompagnate nel loro viaggio dal re Sisowath in persona dimostra, al di là del personale affetto che il monarca nutriva per la Francia, come il corpo di ballo venisse visto come ambasciatore di pace e come veicolo di reciproca conoscenza fra i popoli. In tal senso assume un rilievo particolare la presenza costante di Rodin alle esibizioni delle ballerine cambogiane. Le sue parole dettate alla stampa, che Ghosh riporta: "Ho amato talmente quelle fanciulle cambogiane che non sapevo come esprimere la mia gratitudine per il regale onore che mi facevano danzando per me", rappresentano la giusta sanzione del loro cimento. Della Birmania, vale a dire di un altro popolo "de larga agonía", come direbbe Neruda, Ghosh parla diffusamente nel brano omonimo, ricostruendo un suo viaggio compiuto nella primavera del 1996, incuriosito dalle storie dei molti indiani emigrati in Birmania nel corso del tempo. Il testo costituisce un resoconto critico di questa esplorazione, onesto, schietto, prodigo di riferimenti a persone e situazioni che arricchiscono il quadro e lo animano, ma gli manca il vigore di "Danzando in Cambogia". Qui la fantasia palpita poco, le metafore latitano, né vi alberga il sorriso, che da sempre i tiranni della terra paventano più di ogni altra contumelia. Lo definirei un reportage giornalistico di buona fattura, come potrebbe scriverlo qualsiasi intellettuale di valore. Il riferimento alla "sovrana, inviolata solitudine" di Suu Kyi, donna di un coraggio addirittura temerario e premio Nobel 1991 per la pace, figura pubblica che incontra ogni giorno centinaia di persone, viene lasciato senza sviluppi, ma fa capire in quali direzioni Ghosh avrebbe potuto e dovuto muoversi se avesse voluto garantire al testo un impatto più duraturo sul lettore. |