Come vento nelle risaie
La Cambogia, una volta, era una terra dove le risaie, gonfie di spighe, avevano lo stesso colore del cielo: prati di luce intensa solcati da canali di acqua immobile in cui, fin dalla notte dei tempi, il lavoro degli agricoltori abbracciava lo stesso ritmo del sole. In questo luogo, nel cuore dell’Asia, le genti più diverse convivevano in pace. E nessuno, incontrando il suo prossimo lungo i sentieri di campagna, reputava importante parlare di cinesi, di cambogiani o di vietnamiti se si trattava di salutare il viandante con un sorriso. Accadde poi, all’improvviso, di vedere aeroplani scuri come temporali devastare ogni cosa con il fuoco delle bombe: frutto scellerato del colpo di Stato appoggiato dalle truppe americane con la complicità del generale Lon Nol. Sarebbe stato, quel momento drammatico, soltanto l’anticamera di un inferno che, a partire dal 17 aprile del 1975, si impossesserà della Cambogia insieme ai khmer rossi del sanguinario Pol Pot. Nell’occhio di questo ciclone di sangue, Dith Samang è solo un contadino analfabeta, innamorato dei suoi campi e della sua famiglia. Suo malgrado, il terrore che ha invaso la Cambogia colpirà anche lui: ultimo difensore di una fede che porta il nome di Dara e Kosal, i suoi amatissimi figli, unica ragione per continuare a lottare. E per cercare, giorno dopo giorno, di sopravvivere all’incubo in cui il suo Paese è sprofondato.
ESTRATTO «I suoi capelli scuri erano tagliati a spazzola. Con una sfumatura esageratamente alta. Indossava una camicia bianca. Corta. I pantaloni color corda avevano un taglio longitudinale sulla gamba destra. Questa era visibilmente gonfia e fasciata con una benda di cotone intrisa di sangue rappreso. Non aveva capito di chi si potesse trattare, Samang. Certo era che doveva essere uno importante. Un generale, forse. Uno a cui tutti obbedivano. E di cui avevano timore e rispetto…Era Dio, quell’uomo. Dio. Il Dio di quella terra angosciata e dilaniata. Il Dio della rivoluzione. Della cancellazione. Il Dio dell’agonia. Il Dio dell’annientamento. Del castigo. Il Dio del nulla. Pol Pot. Fratello numero Uno. Hoi. Era così che si faceva chiamare. O con altri soprannomi, per non farsi riconoscere. Nelle sue mille tane, sparse per il Paese. Samang abbassò lo sguardo non appena si girò verso di loro. Rimanendo ancora sdraiato. Sonisay si rivolse a lui con le mani giunte davanti al volto. Lo sguardo a terra. Non lo appellò col suo nome. Né con uno dei tanti che usava…»
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