Quando uno dei suoi studenti più islamizzati le contesta il diritto di tenere un corso sul "Grande Gatsby" - equiparato al Grande Satana -, Azar Nafisi decide di allestire un processo davanti all'intera classe, e di assumere in prima persona il patrocinio del romanzo. Una tecnica certo poco ortodossa, che tuttavia non stupirà più di tanto il lettore di questo sconvolgente racconto autobiografico. Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze tremende - e qui descritte con la precisione di un testimone partecipe e sgomento -, Azar Nafisi ha infatti dovuto cimentarsi in un'impresa fra le più ardue, e cioè spiegare a ragazzi e ragazze esposti in misura crescente alla catechesi islamica una delle più temibili incarnazioni dell'Occidente: la sua letteratura. Per riuscirci, è stata costretta ad aggirare qualsiasi idea ricevuta e a inventarsi un intero sistema di accostamenti e immagini che suonassero al tempo stesso efficaci per gli studenti e innocue per i loro occhiuti sorveglianti. Il risultato è uno dei più toccanti atti d'amore per la letteratura mai professati - e insieme una magnifica beffa giocata a chiunque cerchi di interdirla.
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"Leggere Lolita a Teheran" ci offre uno spaccato di storia dell'Iran raccontato da chi quella storia l'ha vissuta in prima persona ma è anche e forse soprattutto l'appassionante racconto di un seminario semiclandestino in cui per due anni sette giovani donne e la loro insegnante si concedono il lusso "nello spazio magico del [suo] salotto" di togliersi veli e chador che non per libera scelta ma per imposizione indossano e, tra caffè e pasticcini, storie private e critica letteraria, discutendo di Nabokov, Fitzgerald, Jane Austen ed Henry James, mettono a confronto finzione e realtà, fiaba e storia, sogno e concretezza del quotidiano. Durante i venti anni successivi alla rivoluzione khomeinista l'iraniana Azar Nafisi, docente di letteratura inglese all'Università di Teheran, si è trovata a cimentarsi (come leggiamo nel risvolto di copertina del volume Adelphi) "in un'impresa fra le più ardue, e cioè spiegare a ragazzi e ragazze esposti in misura sempre crescente alla catechesi islamica una delle più terribili incarnazioni dell'Occidente: la sua letteratura". Ma nell'autunno del 1995 Azar Nafisi non ne può più, dà le dimissioni da ogni incarico accademico e, come lei stessa ci racconta nella prima pagina del suo libro, decide di "farsi un regalo e realizzare un sogno". Chiede alle sette sue migliori studentesse di andare ogni giovedì mattina a casa sua per parlare di letteratura. Gli studenti maschi vengono esclusi, ma solo perché costituire un gruppo misto sarebbe troppo pericoloso. "Penso che in un certo senso, le letture e le discussioni di quel seminario abbiano rappresentato la nostra occasione di fuga [...]. Solo che noi, alla fine, eravamo costrette a tornare indietro." (pag.78). Il seminario si interrompe nel 1997 quando Azar decide di lasciare l'Iran e di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti dove oggi insegna Letteratura inglese alla John Hopkins University. Il libro della Nafisi è ormai in cima alle classifiche dei best-seller (e non solo in Italia) ma non cessa di impressionare per il vigore con cui si dipana il racconto del variegato gruppo di donne iraniane mortificate e cancellate dalla sfera pubblica dell’Iran integralista e fondamentalista di Khomeini, vessato dai guardiani della fede che scorrazzano per le strade di Teheran e penetrano con prepotenza delatoria sin entro le abitazioni per smascherare innominabili delitti furtivamente consumati tra le mura domestiche , che poi sarebbero non solo il possesso di antenne satellitari per captare le voci libere che vengono dal mondo o libri «eversivi» in grado di sabotare l’opprimente pensiero unico del totalitarismo islamista, ma anche la detenzione e l’uso di cosmetici, cibi esotici e «occidentalizzanti», frivoli vestiti e tutto quanto possa smentire la vita in nero imposta agli uomini e soprattutto alle donne iraniane. Pierluigi Battista, «La Stampa», 16 luglio 2004
La Repubblica islamica dell’Iran, con i suoi Khomeini, Kamenei, guardiani della rivoluzione, non esisteva più. Nessuno tagliava le ciglia e le unghie troppo lunghe. Nessuno censurava le corse, il riso, la cipria, le parole, i gelati, gli occhi che si guardano negli occhi. Nel soggiorno di Azar Nafisi, sotto le vette nevose dei monti Elburz, rinasceva la tradizione femminile dell’Islam. Le Mille e una notte, le Sette principesse di Nezami, dove, come qui, sette ragazze vivono in mondi diversamente colorati. Se Shahrazad aveva raccontato romanzi e storie, salvando allo stesso modo la propria vita dalla morte. In questa parte, la più incantevole del libro, rivive la fitta complicità e il chiacchiericcio femminile, che solo i grandi scrittori sanno raccontare. Mentre fuori infuriava il delitto e la demenza, qui la vita ritornava se stessa, assomigliava alla esistenza narrata dalla letteratura, cioè alla vera vita. Pietro Citati, «La Repubblica», 27 giugno 2004 |