Il racconto di Peuw
Nell'aprile 1975 i Khmer rossi entrano a Phnom Penh, capitale della Cambogia, accolti come liberatori. L'intera città viene subito evacuata, perché nella nuova Cambogia le città, nido di corruzione, non devono esistere. Da quel momento il paese è isolato dal resto del mondo. In quattro anni sotto il regime di Pol Pot muoiono tre milione e mezzo di persone, eppure il mondo sembra ignorare quella che si rivelerà una delle grandi tragedie del nostro tempo. Questa tragedia ha trovato la sua Anna Frank, la sua testimone lucida e attenta in una bambina di dodici anni, Peuw, che è riuscita a scampare al massacro con tre piccoli cugini, e oggi vive in Francia con il nome di Molyda Szymusiak che le hanno dato i genitori adottivi. "Ho amato e tradotto il racconto di Peuw - scrive Natalia Ginzburg - senza saper niente sulla Cambogia e chiedendomi perché, nel corso della mia vita, non avevo mai pensato alla Cambogia né avevo mai letto niente che si riferisse a quella terra". Resoconto minuzioso di una realtà governata da leggi assurde e incomprensibili, la storia di quattro bambini è anche una testimonianza di vitalità e di coraggio, di solidarietà e di affetto. Il racconto di Peuw è uno di quei libri sui quali siamo chiamati ancora una volta a misurare la vergogna e il riscatto dell'uomo.
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“Leggendo il «Racconto di Peuw», sembra miracoloso il fatto che lei e tre suoi piccoli cugini siano sopravvissuti in un paese dove imperava giornalmente la morte, soli superstiti d’una numerosa famiglia. E appare straordinaria la forza vitale di questi quattro bambini, che affrontano marce estenuanti, patiscono il digiuno e la sete, si muovono fra insidie mortali nascoste in ogni cespuglio. Il «Racconto di Peuw» è un libro cupo e tragico, e tuttavia il coraggio e la vitalità di questo gruppo di orfani, sovente costretti a separarsi ma rapidi nel ricercarsi e nel ricongiungersi, e legati fra loro da un intenso affetto, lo accendono di qualche luce. Nel ’75 Peuw aveva dodici anni. Abitava a Phnom Penh, capitale della Cambogia, con i genitori e quattro fratelli. Non lontano, nel suo stesso quartiere, abitavano la nonna, la zia e i cugini. Era, la sua, una famiglia borghese: padre e zio erano alti funzionari e lavoravano nel palazzo del ministero. Entrano a Phnom Penh i khmer rossi. Sono dei ragazzi soldati. Sono vestiti di nero; avanzano, armi in spalla, con visi impenetrabili. Alla popolazione danno ordine di andarsene immediatamente dalla città, dovendo «fare pulizia». Così Peuw, con i famigliari, lascia la sua casa che non rivedrà mai. Comincia per tutti una vita nomade. La gente viene sbattuta di villaggio in villaggio. Nelle campagne, nelle foreste, nei villaggi, vengono costruite capanne che appena fatte è necessario lasciare, perché lo comanda l’Angkar, la nuova organizzazione a cui non sfugge nulla e nessuno. Più tardi si saprà che a capo della nuova organizzazione, a capo dei khmer rossi, è un uomo di nome Pol Pot. Comincia dunque, per l’intera popolazione della Cambogia, un’esistenza di fame, di fatica estenuante e di terrore. E i khmer rossi uccidono per nulla. Si muore per un pugno di riso sottratto alle cucine comuni, per una pentola, per una parola pronunciata distrattamente, per aver colto un frutto o inseguito una gallina, per aver versato qualche lagrima, per essere stati sorpresi inginocchiati a pregare. Lo zio di Peuw, alto funzionario, parente del principe Sihanuk, sarà denunciato come «traditore dell’Angkar» e sarà torturato e ucciso. Prima di lui, per malattie e per fame sono morti gli altri membri della famiglia. Sopravvivono i quattro ragazzi orfani.” Dalla Prefazione di Natalia Ginzburg |