L'arte du Gandara
Nelle aree dell’antico Nord-Ovest indiano, un territorio di frontiera tra mondi diversissimi, corrispondente all’attuale Pakistan e a parte dell’Afghanistan, tra la fine del I secolo a.C. e il IV-V secolo d.C. – con echi che giunsero fino all’VIII secolo – si manifestò una particolare corrente figurativa a contenuto prevalentemente buddhista, comunemente definita “arte del Gandhara”, caratterizzata dalla compresenza di componenti ed influssi classici (ellenistico-romani), indiani, iranici e centroasiatici, composti in una sintesi originalissima di linguaggi formali, simbolici e filosofici. I materiali d’elezione di questa produzione che oltre ad essere scultorea, è anche architettonica – ma che, a giudicare dai rari frammenti, doveva essere anche pittorica – sono lo schisto, talora il calcare, lo stucco e l’argilla cruda. Durante il XIX secolo e nei primi decenni del secolo appena passato, i rilievi buddhisti del Gandhara erano stati apprezzati dagli studiosi occidentali come le uniche creazioni del mondo indiano degne di un qualche interesse artistico, una valutazione sostanzialmente motivata dalla presenza di caratteri stilistici chiaramente collegati all’arte occidentale ellenistica e romana che si esprimono nel modo di rappresentare le figure, nei panneggi e nella resa spaziale. Non riuscendo ad abbandonare i parametri estetici della cultura europea, i ricercatori non potevano comprendere le motivazioni dell’arte indiana propriamente detta, mentre rinvenivano nelle sculture gandhariche elementi cari alla tradizione artistica occidentale. A causa di tale visione euro-centrica, l’arte buddhista del Nord-Ovest venne inizialmente definita “arte greco-buddhista” (principalmente dagli studiosi francesi e tedeschi, primo fra tutti Foucher 1905-22), “arte romano-buddhista” (soprattutto dagli studiosi inglesi e americani) o “arte greco-romano-buddhista”, denominazioni che ponevano in risalto le une o le altre caratteristiche formali. Essa era conside
|
Nasce a Siena il 23 settembre 1917 e s’interessa di temi orientali fin da bambino, tanto che sceglie lui di seguire a Roma il magistero di Giuseppe Tucci con cui si laurea nel 1940 scrivendo una tesi sull’arte del Gandhāra. Dopo la guerra vince due libere docenze e poi il posto di bibliotecario presso l’allora Istituto di Studi Orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma. Proprio nei bei saloni di Palazzo Brancaccio cura, nel 1956, assoluta novità per l’epoca, la Mostra d’arte iranica / Exhibition of Iranian Art, che esponeva più di centotrenta pezzi a documentare l’evoluzione artistica della regione dai bronzi del Luristan fino alla stagione islamica. L’anno successivo, vince la cattedra di Storia dell’Arte dell’India e dell’Asia centrale e Storia dell’Arte dell’Estremo Oriente e diviene il più giovane professore ordinario d’Italia. In quello stesso 1957, la Fondazione Giorgio Cini di Venezia gli affida la direzione della sezione di arte e cultura orientale dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, tenuta fino al 1967 quando si completa l’opera. Nel 1958 cura la mostra L’arte del Gandhāra in Pakistan e i suoi incontri con l’Asia Centrale, allestita prima nei saloni di Palazzo Brancaccio a Roma e poi in quelli di Palazzo Madama a Torino. Accanto all’attività scientifica si afferma quella di alta divulgazione, con trasmissioni radiofoniche culturali e la collaborazione a quotidiani di livello nazionale. Le sue ricerche confluiscono nella pubblicazione de La peinture de l’Asie Centrale (Skira 1963). L’anno dopo, cura la mostra 5000 anni d’arte in Pakistan, allestita nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’interesse di Mario Bussagli, però, non si limita all’arte orientale. È suo il libretto di successo, pubblicato per la Sansoni e dedicato a Bosch e tradotto in molte lingue europee, così come il suo ultimo lavoro Arte e magia a Siena, già uscito postumo per Il Mulino nel 1991 e quest’anno ripubblicato per i tipi dell’editore Betti di Siena. |