Seimila chilometri in tre mesi, un viaggio emozionante dall'Italia al sepolcro di Cristo La Gerusalemme perduta di PAOLO RUMIZ GERUSALEMME - Scende la notte, quasi più nessuno tra le vecchie mura. Solo ombre che passano in silenzio, monaci incappucciati che sbucano da un'arcata per sparire in una laterale. Sulla "Via Dolorosa" un uomo trascina una croce per penitenza, o forse per grazia ricevuta. Lontano, il suono di un organo. Il resto è gatti che frugano nelle immondizie, botteghe sprangate, il grande sonno del suk. Tacciono i muezzin e le campane. Tacciono gli ebrei, che non fanno mai rumore. Di notte, passata l'orda dei turisti, la città santa esce dal tempo.
Sul tetto del Sepolcro, sotto le stelle, neri monaci etiopi accendono candele accanto all'albero del pepe; uno di loro si assopisce, chiuso in una tunica nera, accanto a un libro nero e a un bastone nero. Di sotto, in un angolo della navata, un diacono greco sale una scala ripidissima con un vassoio di focacce per la messa di mezzanotte. Poco più a Nord, nel palazzo cinquecentesco della "Custodia di Terra Santa", i frati di Santo Francesco russano nel sotterraneo dove lo spagnolo Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti, venne rinchiuso secoli fa (non dai turchi padroni, ma dai cristiani, che videro in lui un esaltato attaccabrighe).
Fine del mese di luglio, anno 2005. Il viaggio è finito. Seimila chilometri in due mesi, attraverso gli Appennini, i Balcani, la Grecia, Istanbul, l'Anatolia fino ai confini dell'Iraq. E poi Siria, Giordania, Israele. Un "Camino de Santiago" nella direzione contraria, in cerca dei cristiani d' Oriente verso le terre dei minareti, tra ciò che resta di un passato millenario. Un pellegrinaggio attraverso mercati, biblioteche, deserti, templi, locande, rovine nel vento, metropoli. Un "ritorno" alle origini della fede, col Vangelo, il Corano e la Torah intrecciati in un unico filo rosso fin dalla partenza a sorpresa, in mezzo alle Alpi.
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Le immagini tornano. Le ultime città bianche a picco sulla pianura piena di messi, là dove il Tigri esce dalle montagne. La grande Luna mediterranea, ferma sopra un gigantesco ulivo macedone, un patriarca più vecchio di Cristo e capace di dare ancora frutto. Le notti del deserto, ardenti e piene di stelle. Un sotterraneo di Milano pieno di enigmi. Un sigaro fumato con i pastori, nelle praterie di Abramo. E l'alba dopo un temporale, purissima, sul Monte Nebo, dove Mosé morì in vista della Terra Promessa. Mi chiedo se saprò raccontare tutto questo.
Altre ombre vanno verso il Sepolcro, si assiepano attorno alla tomba. Un monaco palestinese dalla barba e codino grigio-ferro le smista energicamente, quasi brutalmente. Poco in là, sotto un lampadario, suore ucraine vestite di nero si buttano a terra come fagotti, mentre pope, archimandriti e diaconi escono da una nube d' incenso per varcare un tramezzo tappezzato di sacre immagini. "La vita è nella tomba", sussurra ghignando il vescovo greco Theofilos, per spiegare a me, misero cristiano d' Occidente, che il mistero è tutto in quelle reliquie.
Niente in questo viaggio ha rispettato le previsioni. Ero diretto al Monte Athos, roccaforte maschile della fede, e poi ho bussato ai monasteri delle femmine sui monti della Grecia. Ho seguito donne sciite nella moschea di Damasco, e le ho viste genuflettersi davanti a un minareto dedicato a Cristo. In Kosovo, in mezzo all'odio, ho trovato l'oasi di pace più straordinaria del viaggio. Con un eremita ho pregato per la pioggia, ed è arrivata la neve, benedetta dopo anni di sete. E il mattino dopo, in fondo a un deserto color senape, è apparso il Monte Libano, immacolato come la cordigliera delle Ande.
Il mondo è sconvolto dal terrore. Eppure, quante crepe nello scontro di civiltà. Ragazze in chador che chiedono la fertilità alla Madonna. Musulmani che bevono vino. Ebrei che cantano canzoni dell'Islam. Cristiani che si prostrano fronte a terra e sedere per aria, come i seguaci di Maometto. Rabbini rumeni nerovestiti come i preti ortodossi, islamici che non costruiscono minareti e altri che ti parlano degli ebrei come dei cugini partiti.
In Turchia, durante una partita di calcio, ho sentito bambini litigare in aramaico, la lingua del Nazareno. In Grecia, ho visto sgozzare un toro in onore delle sante icone. E poi altari che un tempo erano sacri mattatoi, storie sugli adoratori del diavolo ai confini dell'Iraq, gli ultimi fuochi di Zoroastro. Qui a Gerusalemme ho giocato a briscola e bevuto anisette con un'allegra brigata di francescani. E ovunque ho trovato la sorpresa di una birra. Anche ai margini del grande mare astemio dell'Islam.
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Eppure m'avevano avvertito. Specie un frate, una sera, sul mare di Venezia. "Impara in fretta - disse - la geografia del sacro non c' entra con la religione. La religione è regola, apparato. Il sacro è altro...misterium tremendum...nostalgia di un'assenza...Ti sorprende dove non te l'aspetti. In una chiesa o in una sinagoga diroccata, in un mendicante che ti guarda, sulla cima di un monte. Il sacro è un fiume sotterraneo...ignora confini e conflitti. Chiamalo dio, se vuoi. Ti sarà sempre vicino, lo scrive anche il Corano. Come la tua vena giugulare".
Il frate aveva ragione. Nulla è rimasto negli schemi. Più andavo a Oriente, più mi allontanavo da Roma, più il cristianesimo diventava minoritario e privo di potere temporale, e più il suo insegnamento risplendeva. Le chiese più piene della mia vita le ho viste ad Aleppo, nella repubblica islamica di Siria. Le più vuote, nella laicissima Turchia. E il posto più impenetrabile non è stata la sinagoga di Istanbul o la moschea di Damasco, ma il Vaticano. I mezzi di trasporto, corsari anche quelli. Un camion guidato da un turco pazzo per la Luna, sua segreta Dea Madre. Pescherecci greci che portavano vettovaglie all'isola abitata da un unico monaco, reso barbaro dalla solitudine. Un uomo che andava a pieni dalla Francia a Gerusalemme, in cerca della moglie morta. E, ancora, un treno italiano pieno di slave che cantavano inni stupendi al Signore. E poi le attese. Il treno per Bagdad che non partiva. Le ore in piedi davanti a una poliziotta israeliana adolescente che masticava chewing gum e sfogliava il mio passaporto, senza guardarmi negli occhi.
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La notte rinfresca, è l'ora dei pipistrelli, arriva la brezza dal Giordano, mille metri sotto il Monte degli Ulivi. è dolce l'aria di Gerusalemme, pare velluto. Una processione disegna ombre enormi davanti a un lampione, se ne va con le sue litanie, si lascia dietro solo l'eco del "Saecula saeculorum". Ho gli occhi pieni di ori, ceri accesi, splendidi riti, icone uscite da sonni millenari. E poi quei pellegrini russi, capaci di tracciare rotondi arcobaleni col semplice segno della croce, come contadini nel gesto largo della semina. Ma è uno splendore che inganna. Quegli ori mentono: non dicono che il cristianesimo è in pericolo. A Istanbul i greci sono scesi da trecentomila a cinquemila. Ho visto il loro patriarca, Bartolomeo, chino sulla sua scrivania, solo sotto il ritratto di Ataturk, assediato da mille minareti che si chiamavano nella sera. A Est di Istanbul il vuoto turco è ancora più tremendo. I cristiani che un secolo fa erano milioni, oggi sono poche famiglie disperse. Così poche che un giorno ho creduto di essere uno zoologo pazzo, alla ricerca di una specie estinta. Sul magico altopiano di Tur Abdin, il Monte degli Adoratori, punto più orientale dell'itinerario, ho trovato un villaggio con cinquanta cristiani dimenticati dal mondo, discendenti dei pochi sopravvissuti alla mattanza del 1915. Con loro, un unico ringhioso monaco, asserragliato in un eremo, che urlava ai fedeli come un pastore alle pecore, armato di bastone e vestito di nero come mago Merlino. Qua e là si restaura una chiesa, arriva una donazione, la speranza rinasce. Ad Antiochia, un francescano ha rimesso in piedi la comunità in pieno accordo con ortodossi, musulmani, ebrei. Qualche armeno anziano ritorna. Tra Mar Nero e Mediterraneo, un vecchio prete indomito di nome Roberto fa centomila chilometri l'anno per dir messa e tenere in vita le ultime chiese rimaste nella più lontana Anatolia. Ma è una corsa in salita. In Kosovo i monaci sopravvivono solo grazie a una barriera di blindati italiani. In Israele, la tensione tra ebrei e musulmani schiaccia proprio chi non c' entra, le genti di Cristo. "Non c' è ostilità contro di noi - ti dicono queste - ma non c' è futuro. Viviamo in un Paese sigillato. I giovani se ne vanno. Niente lavoro, niente matrimoni. Siamo sempre di meno". Sembra impossibile che accada proprio dove il cristianesimo ha scritto la sua leggenda.
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Che notte. Le stelle fanno una curva lunga sulla Moschea della roccia, luogo santissimo dell'Islam, del Giudaismo e della Cristianità, e l'ombra della cupola pare un'astronave persa nelle galassie. Nel quartiere musulmano la civetta ripete il suo grido metallico, quasi ultraterreno. Nella cattedrale di San Giacomo si alza un canto veloce, tenebroso, inconfondibile. Sono gli armeni, in fuga da millenni col Libro sotto braccio. Pregano come soldati, mentre la Luna penetra dal lucernario e taglia con un raggio blu l'aria piena d'incenso. La minaccia dell'Islam? C' è dell'altro. Il nazionalismo, per cominciare. Nel 2004, un centinaio di chiese serbe in Kosovo sono state date alle fiamme da albanesi (musulmani ma anche cattolici) impregnati di filo-americanismo e coccolati dalla Nato. Un secolo fa, i bulgari ortodossi hanno distrutto i monasteri greci del Nord con più ferocia degli ottomani. E i turchi hanno massacrato greci, armeni e siriaci solo durante l'agonia dell'impero, quando Ataturk si avviava a bandire alfabeto arabo, velo e barbe, mettendo in riga gli imam. E poi, l'indifferenza. In Cappadocia i visitatori europei arrostiscono spiedini nelle chiese rupestri senza nemmeno chiedersi come mai, in una terra intrisa di storia cristiana, non ci sia più un solo cristiano. Non un siriaco, un armeno, un greco. Come se tutto fosse finito da ottanta secoli, non da ottant' anni. E qui a Gerusalemme, guardando turisti in bermuda parlare al telefonino davanti alla tomba di Cristo come fossero a Disneyland, ho pensato al tramonto dell'Occidente. Incredibilmente, in questo disastro, i cristiani hanno tempo per farsi la guerra. Persino nel Sepolcro, è uno scontro di processioni e cori; uno strepito che solo l'organo cattolico sa far tacere, sparando la cannonata finale. "Una volta era peggio - scherza Michele Piccirillo, mitico francescano scopritore dei più bei mosaici di Terrasanta - i cattolici buttavano pepe in polvere dalle balaustre sui greci che cantavano di sotto, per farli starnutire". La ruggine è così antica che, per evitare risse, le chiavi del tempio sono da secoli in mano a un musulmano. Siamo divisi in ventidue confessioni. Ebbene, persino in ciascuna esse regna la discordia. Tutte ballano sull'abisso. I russi si sbranano fra anticomunisti e non, si lanciano accuse di furto, corruzione, droga. Le lobby cattoliche si fanno guerra per i miliardi del turismo religioso. I greci hanno quasi linciato il loro patriarca che aveva venduto agli ebrei terreni nella città vecchia. Gerusalemme può essere una gabbia di folli.
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Ma ora dormono tutti: i russi, i siriaci, i drusi, i maroniti, i copti. Dorme l'ebreo hassid Gideon Lewensohn, dopo essersi tolto il cappello di pelliccia, aver recitato le ultime preghiere, e messo a letto cinque dei suoi otto figli. Dorme Awni Amarneh, vecchio custode musulmano di una sinagoga, pure lui padre di otto figli, che ogni giorno traversa paziente il check point per fare il suo lavoro. Dorme di sonno inquieto Ibrahim Igbaria, cristiano di rito greco della Capitale, che ha sposato una donna di Ramallah ma non può farla abitare in casa sua, perché la legge rende quasi impossibile l'immigrazione dai Territori. Un'ultima birra sulla terrazza dell'hotel Mishkenot, davanti alle stelle del Monte Sion. Tutto si ricompone, in fondo al labirinto. Le bombe sull'Iraq, le Torri Gemelle, l'incendio balcanico, il crollo del Muro. Qui è la matassa che riannoda i fili trovati sui monti della Cappadocia e nei manoscritti della Biblioteca Ambrosiana a Milano; nei monasteri dei Balcani, sull'isola degli Armeni a Venezia o sulla tomba di Schindler, qui vicino, verso la valle di Josafath. Ho in mano un "komboloi", un piccolo rosario a palline nere di maiolica, regalato da un greco a Salonicco. Solo stanotte ho imparato a farlo volare nel modo giusto tra le dita. Sempre stanotte, m'accorgo che questo viaggio non è durato due mesi, ma anni. La spinta gliel'ha data la morte di un grande Papa, ma tutto è cominciato molto tempo prima. Ha un'incubazione lunga la febbre di Gerusalemme. E' una malattia che ti mangia, cresce per contagio, si nutre di incontri, letture, coincidenze, sogni. E ora, che la storia cominci.
(19 agosto 2005) |