Il ritmo del Novecento Esce finalmente in Italia «La terra del blues», la straordinaria ricerca sulla «musica del diavolo» compiuta da Alan Lomax negli anni Quaranta. Un testo straordinario che documenta come il blues sia diventata la colonna sonora del secolo scorso ANDREA COLOMBO Nel 1941 il Delta del Mississippi era un postaccio dove stringere la mano a un negro (il politicamente corretto «nero» essendo anni luce di là da venire), poteva costarti la pelle e definirlo distrattamente «signore» comportava l'immediata espulsione a vita dalla contea. La culla del blues, la terra natale di Robert Johnson, Charley Patton, Son House, Muddy Waters, era una zona franca dove le leggi che si dava ogni contea valevano assai più di quelle federali, ed erano sempre le leggi non scritte di Jim Crow, quelle che garantivano la segregazione dei discendenti degli schiavi. Nel Delta il ventiseienne Alan Lomax, etno-antropologo come il padre John, ci arrivò sulle tracce di Robert Johnson, che allora non si sapeva neppure se fosse esistito davvero ma di cui già circolavano le scarse registrazioni. Aveva l'obiettivo e il compito di registrare la musica dei neri del Delta, il blues, per conto della libreria del congresso. Di nascita Lomax aveva le credenziali a posto, veniva dal Texas ex confederato, ma lavorava per il governo, e quella nella terra di Dixie era una caratteristica assai meno popolare. Se poi un uomo di Washington arrivava per parlare con i neri, registrare la loro musica, e, peggio, le loro esperienze dirette, la faccenda poteva diventare pericolosissima, e per Lomax lo diventò in più occasioni.
Non trovò Robert Johnson, incontrò però sua madre, e quella gli raccontò come «Little Robert», l'autore di Crossroads e Love in Vain, fosse morto, avvelenato per gelosia. Riuscì lo stesso a conoscere e a registrare musicisti come Son House, che a Robert Johnson aveva insegnato i rudimenti appresi con Patton e, per vie indirette, dal grandissimo Blind Lemon Jefferson, Big Bill Broonzy, e poi Leadbelly, appena uscito di galera, Sonny Boy William, Sam Chatman, che si diceva fratello di Patton ed era parente di Memphis Minnie, che «era nata con la chitarra in mano, ma la lasciava subito quando poteva farsi dare tre o quattro dollari per una sveltina».
Quelle registrazioni di Lomax per il congresso hanno permesso al blues del Delta non di influenzare ma di plasmare e fondare l'intera cultura occidentale del Novecento, e non solo in termini musicali.
Ma Lomax non si limitava a cercare e a registrare i grandi bluesmen del Sud. Ricostruiva con la meticolosa pazienza di chi adora la sua materia di ricerca le radici del blues (e di tutta la musica nera), le sue radici africane, il suo rapporto col corpo e con la danza, la sua nascita negli anni dello schiavismo, e poi l'impatto fortissimo della ferrovia, costruita dai neri «liberati», dei grandi battelli a vapore da cui i neri scaricavano le merci, dell'imponente argine del Mississippi, un'opera ancor più gigantesca, ricorda Lomax, della muraglia cinese. E la galera, il penitenziario, i lavori forzati, tutti giardini nei quali cresceva e si sviluppava la «musica del diavolo».
A differenza degli altri bianchi che alla musica dei neri hanno dedicato la vita, e che hanno lasciato libri meravigliosi, come Sam Charters o l'inglese Paul Oliver, Lomax non era uomo di lettere. Lavorava sul campo. Ascoltava, registrava, raccontava alla radio quel che aveva visto. The Land Where the Blues Began, il suo grande libro che esce finalmente in Italia (La Terra del Blues, Il Saggiatore, pp. 461, € 39) lo ha scritto a 78 anni, nel `93, nove anni prima di morire. E' una rievocazione dei suoi viaggi e delle sue ricerche immediata come una cronaca scritta a caldo da un giovane dotato. Ma è una rievocazione scritta sapendo già quello che sarebbe successo nei decenni successivi, anche in seguito a quei viaggi e a quelle registrazioni. Lomax scrive dopo il grande revival blues, soprattutto inglese, dei `60, scrive parlando anche di rock'n'roll, reggae, rap. Scrive dopo aver proseguito le sue ricerche e aver verificato per decenni le sue intuizioni, in particolare quelle sulle radici africane del blues. Il risultato è un testo fluviale come una piena del Mississippi, ricchissimo e mai, neppure in una riga, professorale. Un libro che non parla del blues ma è il blues.
Negli anni nel maccartismo Lomax, in fuga dal suo paese, visse anche in Italia e anche qui, come in altri paesi europei, portò avanti le sue ricerche sulla musica popolare. Nella sua bella prefazione Alessandro Portelli racconta un incontro con il grande etno-antropologo, negli anni `80: «L'ultima volta che lo vidi era una sera in un piccolo club musicale di Roma. Non ricordo chi fosse a suonare, ma era musica americana. A un certo punto la porta si aprì ed entrò Alan Lomax. Col suo avventuroso italiano, forse con l'aiuto di un sorriso in più, ci arringò: che state a fare qui a sentire musica venuta da fuori, quando avete tanta bellissima musica del vostro paese?». La risposta, forse, la fornisce lo stesso Lomax, nell'Introduzione al suo libro: «Il blues è da sempre un modo di essere, prima ancora che un tipo di musica. Un tempo questo accadeva solo ai neri del profondo Sud degli Stati uniti; oggi invece succede in tutto il mondo. Oggi tutti cantano e ballano musica ispirata al blues, e il vecchio fiume possente del blues scorre bell'orecchio del pianeta. Il blues è diventato il genere musicale più familiare a tutto il genere umano perché tutti cominciamo a sperimentare la stessa malinconica insoddisfazione che appesantiva i cuori del neri del Delta del Mississippi». E' molto più di quanto possa rivendicare qualsiasi altra musica, popolare o colta, del Novecento. |