Uomini e montagne del Sahara
1986, il mio primo viaggio nel Sahara Algerino. Come documentarsi. Negli scaffali delle librerie poco o nulla. Fortunatamente qualcosa nella biblioteca del CAI di Brescia e in quella personale dell'amico Favalli. Questo fu il mio incontro con il monumentale Sahara di Mario Fantin, appassionato e volonteroso cercatore di informazioni.
Fotografo e cineoperatore, con il suo immenso lavoro lo studioso bolognese ha portato fino a noi le montagne: le cime innevate, i campi base, i volti bruciati dal gelo degli alpinisti, le gole dei crepacci... Assai più vasto, però, fu il suo repertorio. Le sue immagini, infatti, ritraggono anche i Masai e gli Uomini blu del Sahara, i monaci buddisti e i portatori delle Ande, i cammelli e le dune del deserto.
Ci ha lasciato un patrimonio immenso costituito di documenti, carte geografiche e film che sono «le fondamenta della storia dell’alpinismo su tutte le montagne del mondo, anche le più lontane e meno note»: un tesoro inestimabile, custodito dal Museo Nazionale della Montagna del Cai-Torino. In occasione dell’Anno internazionale delle Montagne, con una minima parte di quest’abbondante materiale il museo stesso (insieme con altri “attori”, come la Regione Piemonte) ha realizzato un’esposizione che — Suddivisa in percorsi tematici - privilegia soprattutto l’aspetto fotografico. Un'area video è però dedicata ai lavori cinematografici, mentre un settore — fitto di manifesti, volumi, immagini e cartine - è specificamente rivolto all’importante lavoro di documentazione.
Fantin stesso ricorda, nella prefazione di “Italiani sulle montagne del mondo” (1967): «Ho potuto seguire l’impulso di scalare una cinquantina di quattromila sulle Alpi, una ventina di cinquemila in diversi continenti, di accumulare 80 mila fotografie di montagna, di realizzare circa 30 film di montagna, senza mai pensare ad un alpinismo professionale. Ragioniere sono rimasto anche se le mie modestissime attitudini in questo campo sono state sommerse da un’attività sempre più volta a valorizzare la vita di montagna, divulgarla e studiare problemi extra alpini: ragioniere dell’alpinismo italiano extraeuropeo».
Da quando conobbe la montagna (a 26 anni, e dunque piuttosto tardi) Mario Fantin fu catturato dalla passione per l’alpinismo, che traspare con forza e impeto dal suo lavoro. Cominciò a frequentare le Dolomiti e poi si spostò sulle Alpi Occidentali, divertendosi a documentare le sue ascensioni dapprima con la macchina fotografica e poi attraverso le riprese cinematografiche.
Fu l’inizio di una lunga avventura, di un’esperienza unica e affascinante che lo condusse sui rilievi di tutti i continenti e ora lo fa considerare l’iniziatore della moderna documentazione sulle scalate. In breve Fantin portò a termine una cinquantina di arrampicate a cime di oltre 4000 metri, realizzando servizi fotografici e documentari. Nel 1952 partecipò, come cineasta, alla prima edizione del “Filmfestival della Montagna” di Trento. Poi, nel 1954, si propose come cineoperatore ad Ardito Desio per la spedizione al K2, strappandogli il consenso dopo aver collezionato ben tre rifiuti. Pochi anni dopo, quando ormai si era consacrato totalmente alla montagna, conobbe Guido Monzino che poi lo volle con sé, come cineoperatore e fotografo, in numerose spedizioni extraeuropee: dal Sahara all’Africa equatoriale alla Groenlandia.
Ormai Fantin era completamente assorbito dalla montagna. «Dei suoi film era operatore e regista, scriveva i testi schizzava le cartine, preparava e fotografava i titoli, sceglieva la voce del parlato e la colonna sonora», e in capo a pochi anni aumentò in misura considerevole anche l’attività editoriale, pubblicistica e di conferenziere. La sua prima importante opera monografica, compendio di otto anni di ricerche, fu “I 14 Ottomila” (pubblicata nel 1964 da Zanichelli)
Terminata la collaborazione con Monzino e chiusa la parentesi cinematografica, ridusse di molto le spedizioni. Il motivo? Fu conquistato, e decise di dedicarglisi completamente, da un progetto di documentazione al quale attribuiva molta importanza. Scrisse, infatti, nella prefazione ad un suo volume: «Ai giovani voglio raccomandare: scalate e poi scrivete. L’alpinismo scritto racchiude in sé un patrimonio di dati tecnici, di informazioni precise, di sensazioni, di pericoli trascorsi, di misure prudenziali, di avversità vinte».
Nel 1967, tra mille difficoltà, fondò nella sua città natale il Cisdae (Centro Italiano Studio Documentazione Alpinismo Extraeuropeo). Scopo dell’iniziativa, secondo le sue parole: «raccogliere, conservare, elaborare, valorizzare, studiare e pubblicare quanto si riferisce all’alpinismo italiano e straniero nel mondo». Alla fine del 1972 fu quindi pubblicata, in due volumi, la sua monumentale opera (1301 pagine) intitolata “Alpinismo italiano nel mondo”. Negli stessi anni si occupò della redazione di altri volumi importanti: “Sui ghiacciai dell’Africa” (1968) “Montagne di Groenlandia” (1969) “Uomini e montagne del Sahara” (1970) “Sherpa Hymalaya Nepal” e “Tuareg Tassili Sahara” (entrambi del 1971).
Ormai quello di Fantin era diventato un lavoro disperato, quasi un'impresa titanica. Certo, non si risparmiava: con sfibrante fatica tradusse, verificò, archiviò e stilò un’immensa mole di dati. Scrisse, una volta, al Presidente del Cai: «Lavoro 16 ore al giorno, festivi compresi, quando vado in spedizione, è per me un vero riposo, anche mentale».
Oltre che quasi titanica, però, la sua era anche un’impresa solitaria. Proprio la solitudine, e un senso d’impotenza, sarà il male che determinerà il collasso finale del suo lungimirante progetto. «In quel clima, il morale di Fantin cominciò a vacillare. I quattrini scarseggiavano, e il lavoro sfibrante e ossessivo di tanti anni cominciava davvero a pesare sul suo entusiasmo». Nel 1973 il Cisdae venne acquisito dal Club Alpino Italiano, che lo lasciò in gestione al suo fondatore a Bologna. Per qualche tempo la soluzione parve soddisfacente, ma dopo poco la situazione tornò a peggiorare anche se — incredibilmente — uscirono ancora notevoli monografie con la sua firma: “Tricolore sulle più alte vette” (1975) “Mani Rimdu Nepal” (1977) “Himalaya” e “Karakorum” (1978) “Le Ande” (1979).
Ma «la depressione, la fatica, la delusione seguita a un furto che lo aveva privato delle sue cose più care e le condizioni di salute precarie lo relegarono in un orizzonte soffocante», senza più luce, e il 23 luglio del 1980 Mario Fantin mise fine alla sua esistenza.
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Nato a Bologna da genitori friulani, Mario Fantin ha scoperto la montagna e l’alpinismo a 26 anni. Ha partecipato alla seconda guerra mondiale combattendo sul fronte albanese. Si è avvicinato alle Alpi dopo un corso di alpinismo, documentando le proprie ascensioni con la macchina fotografica: fu l’inizio di una lunga avventura come alpinista, fotografo e cineasta. Nel 1954 ha partecipato alla spedizione italiana al K2 per la quale ha realizzato la parte documentaria del film Italia-K2 e il libro-diario K2 Sogno vissuto. E’ stato protagonista di numerose spedizioni alpinistiche (oltre trenta) ed etnografiche extraeuropee nelle Ande, nel Sahara, nell’Africa equatoriale, in Groenlandia: in queste occasioni ha realizzato una cinquantina di film-documentari in cinque lingue, oltre a scattare alcune migliaia di fotografie. Ha pubblicato una ventina di opere monografiche e un centinaio di pubblicazioni sull’alpinismo extraeuropeo, sull’esplorazione e l’etnografia. Nell’autunno 1967, a Bologna, ha fondato il Centro Italiano Studio Documentazione Alpinismo Extraeuropeo con lo scopo dichiarato di raccogliere, conservare, elaborare, valorizzare, studiare e pubblicare quanto si riferisce all’alpinismo italiano nel mondo e all’alpinismo straniero. Utilizzando questo grande archivio del Cisdae, che ha alimentato continuamente con nuova documentazione (alla sua morte conteneva decine di migliaia di fotografie, documenti, dati, cartine, testimonianze), Mario Fantin ha realizzato opere sull’alpinismo italiano nel mondo, sulle montagne e i ghiacciai di Africa e Groenlandia, su popolazioni autoctone di varie parti del pianeta. È morto a Bologna nel 1980, all’età di 59 anni. |