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Verso il Cuore del Mondo di Claudio Cardelli |
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AFGHANISTAN Crocevia dell’Asia Prima notte in Afghanistan
Siamo partiti dall’Italia da quasi un mese e siamo giunti a Mashad qualche giorno fa. La città dei turchesi si distende rovente all’ombra della cupola del grande mausoleo dell’Imam Rezà. L’impazienza e l’inquietudine sono alle stelle. Siamo in prossimità della frontiera afghana! Ancora duecento chilometri sotto una canicola di oltre 40 gradi ed eccoci in vista dell’ultimo avamposto persiano di Tayabad. Gli uffici della frontiera tra l'Iran e l'Afghanistan nel 1977 erano lo specchio di una tragedia umana che si consumava lungo le polverose strade dell'Asia centrale. Un popolo di superstiti delle ideologie potenti, e in qualche modo destabilizzanti, che l'avevano fatta da padrone nell'ultimo decennio, cercava quaggiù nuovi orizzonti interiori. Purtroppo l'inquietante "museo" allestito dalle autorità iraniane per scoraggiare il traffico di droga che proveniva dall'Afghanistan, dal Pakistan e dall'India, offriva invece l'angosciosa immagine di molte vite rovinate dalla suggestione delle "coscienze allargate". Hascisch, eroina, oppio e quant'altro si rimediava a poche lire in quei paesi, uniti alla suggestione delle filosofie orientali, erano l'alimento quotidiano di migliaia di disperati che spesso finivano la loro esistenza in qualche fetida galera o nel piccolo cimitero cristiano di Kabul, pieno di lapidi con nomi europei. Prima di arrivare all'Ufficio Visti di Tayabad dovevi passare davanti ad una fila di bacheche con i sinistri reperti sequestrati ai viaggiatori trovati in possesso di "merce" illegale. Tubi di dentifrici, scarpe sventrate, scacchiere aperte in due, marmitte di pulmini, borracce....e poi un biglietto con nome, cognome (moltissimi italiani) quantità in grammi di sostanza sequestrata e gli anni di carcere inflitti, sempre molti. L'Iran era severissimo in fatto di stupefacenti. Il governo garantiva agli anziani una razione di oppio per "alleviare gli acciacchi della vecchiaia", ma prevedeva anche la fucilazione per spacciatori e trafficanti. Ricordo benissimo di aver letto il nome di un ragazzo, credo sardo, che per venti grammi di hashisch aveva ricevuto una condanna a dodici anni di carcere e immagino che le galere persiane non fossero propriamente dei centri residenziali. Tutto quel lunghissimo viaggio (18.000 km) fu un po' all'insegna di incontri, spesso singolari, con esponenti di questo popolo. A volte ci sentivamo decisamente fuori posto. Noi, spinti semplicemente dalla voglia di "avventura" striata di qualche venatura hippie generata più che altro dalla passione per la beat music e la west coast, eravamo anche un po' snobbati. I nostri miti, devo confessarlo, non erano Ginsberg o Keiruak o il Maharishi Mayeshi Yogi, ma si trovavano tra i protagonisti dei grandi raid con le Land Rover, ricordo Nino Cirani con le sue “aziza”, o con i più alternativi pulmini Wolkswagen. Come già detto le mete popolari erano Capo Nord, il Marocco o Istanbul, ma il viaggio via terra fino all'India evocava qualcosa di grandioso. Ci riportava alle scorribande mongole, a Marco Polo, ad Alessandro il Macedone. Ed ora, dopo quasi 5000 km di strada attraverso la Yugoslavia, la Bulgaria, la Turchia e l'Iran, eravamo finalmente giunti lì a pochi chilometri da Islam Qalà, attraverso il deserto di Lut, ai confini di quell'affascinante crocevia dell'Asia che era allora l'Afghanistan. Indimenticabile quell'ingresso nella terra dei Pathàn, degli Hazarà dei Kalàsh. La frontiera afghana era mille anni indietro rispetto a quella iraniana. Una ventina di chilometri di terra di nessuno separava il potente Iran di Rezha Pahalavi dal medievale Afghanistan. Ecco l'ufficio doganale! E’ una costruzione di fango del tutto simile alle capanne dei villaggi lungo l'unica strada che attraversava il paese nella parte meridionale. Due stanzette e due curiosi funzionari con divise sbrindellate svolgono con svogliata lentezza le pratiche. Il modulo, un foglio ciclostilato malamente e da riempire con i dati anagrafici, viene distribuito da un gracchiante ragazzotto che ostenta una fascia al braccio con scritto "Police" con una biro. Per terra, stravaccati fra mosche e sacchi di iuta maleodorante, gruppetti di hippies con figliolanze biondo platino, famigliole di locali e un "rambo" in mimetica aspettano più o meno pazientemente di entrare o uscire dal paese. Tutto l'insieme ha dell'incredibile. Nel cortile, mentre un tipo inturbantato compie ricerche molto superficiali con uno specchio sotto un minibus di un gruppetto di “frickettoni” olandesi, tre afghani vestiti come nelle "Mille e una notte" caricano all'inverosimile un autocarro. Il camion, nella migliore tradizione afghana, è tutto dipinto con soggetti che ritraggono paesaggi lacustri, oasi, danzatrici. Un piccolo sogno di freschezza da portarsi dietro nella disperata e sassosa solitudine dei deserti e delle brulle montagne dell'Hindukush. Il carico degli afghani, che ridono come matti del loro stesso sfidare gli equilibri delle fisica, ha raggiunto una considerevole altezza e i sacchi contenenti merci varie pendono decisamente da un lato. Osserviamo estasiati tutto questo spettacolo. L'Iran, a venti chilometri, con i suoi poliziotti in Harley Davidson, le Chevrolet Cherokee, i boulevard mittleuropei di Teheran sembra veramente lontano anni luce. Qui è tutto improvvisato, conquistato attimo dopo attimo. C'è un lontano governo non meglio identificato. Negli uffici pubblici, fotografie di re e presidenti si avvicendano rapidamente su un paese che rimane, e rimarrà, un crogiolo di etnie e tribù spesso in grave contrasto. Il camion intanto parte barcollando tra le ovazioni allegre degli astanti. Poco dopo anche noi otteniamo l'agognato visto di ingresso e, ormai al tramonto, ci avviamo lentamente verso la città di Herat distante poco più di cento chilometri. Ci muoviamo assieme a quattro ragazzi bolognesi dotati di un fascinoso pulmino Wolksvagen: di quelli con il parabrezza diviso in due, per intenderci. La strada, una pista mal tracciata con avanzi di lastre di cemento, è deserta. Procediamo spesso appaiati scambiandoci grandi gesti di entusiasmo di fronte a questo affascinante Nulla. A poca distanza, al primo accenno di semi curva, il camion stracarico si è rovesciato e gli afghani, sempre urlando e sempre ridendo, stanno ricomponendo il carico forse sapendo che da qui ad Herat la strada è praticamente diritta... Arriviamo al primo villaggio: un ammasso di abitazioni basse e di colore ocra che si confondono con il paesaggio circostante. All'orizzonte la palla del sole rosso fuoco si staglia su un profilo di rovine di antiche fortificazioni. Improvvisamente un cavaliere con un turbante bianco spunta da una viuzza del villaggio e si mette a galoppare al nostro fianco facendo grandi gesti di saluto e sollevando sassi e polvere. Guardo i bolognesi che come noi hanno “gli occhi fuori dalla testa”. Sembra di essere entrati in un sogno e alla sera tardi, in un buio pesto, i fari del nostro camioncino finiscono col riflettersi su una specie di superficie dorata. Sono le mura in maiolica della grande moschea di Herat: siamo arrivati nel centro di una città di centomila abitanti e non ce ne siamo neppure accorti. E’ il 1977 ma poteva essere anche il 1880 o il 1600. L'Hotel Park ci mette a disposizione il giardino per accamparci. E' una vecchia costruzione dall'aria un po' britannica e decadente. Nel buio, sotto le piante, intravediamo le sagome di grosse motociclette con sidecar. Sono di un gruppo di olandesi che stanno andando in India con dei residuati bellici di Indian e Harley. Sono fantastici. I lunghi capelli biondi e gli occhialini che quasi tutti portano cozzano vistosamente con l'abbigliamento semi militare e un vago senso di "machismo" che pervade la compagnia. Hanno delle chitarre e, nonostante l'ora tarda, si mettono a strimpellare. Non resisto alla tentazione di unirmi al gruppo. Chiedo uno strumento e senza parlare attacco "Teach your chidren" di Graham Nash... E' come avviare una dolce conversazione. Uno dopo l'altro snoccioliamo tutti i brani della West Coast che in quegli anni furoreggiavano e costituivano una specie di linguaggio universale tra quelli della mia generazione. Una generazione di sognatori irriducibili e romantici, un po' infantili e ingenui e che non hanno mai smesso di credere che, in qualche modo, si potesse "cambiare il mondo". Anche se non si capisce bene in che cosa.. Un mondo di fiori e chitarre? Di amore e di pace? "We can chaaeeange...the woorld..."; intoniamo tutti insieme "Chicago" con qualche stecca in più degli stonati che non resistono dal partecipare anch'essi a questo neo canto notturno di "fuoriusciti" erranti per l'Asia. Ma è tardissimo e un afghano di guardia all'Hotel ci chiede, imprecando, di darci un taglio. Gli olandesi con molta freddezza lo mandano chiaramente a quel paese con atteggiamento di vaga reminiscenza coloniale. Noi italiani, brava gente, abbozziamo. L'incantesimo è rotto. Il sonno è pesante e i grilli emergono lentamente nel grande silenzio che si è fatto nel giardino del Park Hotel. Domani Herat si dischiuderà ai nostri occhi nel suo più languido medio evo. Niente veicoli a motore, solo carretti, cavalli, Chai Kanè (case da tè) bazar, moschee, rovine e, ovunque, donne in chadrì (o burkha come si dice adesso) che si aggirano per le strade polverose come fantasmi colorati e sospinti dal vento. Herat negli anni settanta contava poco più di centomila abitanti. Il suo traffico era costituito da calessi, cammelli, cavalli qualche bicicletta e qualche colorato e fumoso camion. Le case basse sulle larghe vie in terra battuta delimitavano l’animato bazar. Rami, argenti, vasellame di vetro senza piombo, come quello degli antichi romani per intenderci, rudimentali ed affascinanti tessuti, pellicce di lupo, orso, volpe con rudimentali conce che lasciavano l’odore di selvatico per millenni. Fabbri, falegnami, macellai, speziali… Un vero bazar dell’Islam medievale al cui centro troneggia la magnifica moschea del venerdì. La moschea è un capolavoro del periodo guride, XII secolo, e negli anni ‘70 era sottoposta ad accurati restauri, come tanti monumenti dell’Afghanistan, grazie alla politica dell’illuminato presidente Daud. Il laboratorio all’interno provvede alla ricostruzione delle maioliche con il sistema ad incastro chiamato “kashi”. Un artigiano ci racconta che l’origine delle maioliche è italiana. Faenza ci dice…. L’effigie di Daud imperversava ovunque, dalle monete alle banconote ai francobolli, agli uffici pubblici, banche, poste, ospedali. Era il cognato del re Zair Sha e nel 1973, sembra aiutato dai sovietici, prese il potere con un incruento colpo di stato. Il re si trovava in Italia per curarsi gli occhi…fece una capatina ad Ischia e mentre era immerso nei miracolosi fanghi gli venne recapitato un telegramma. I repubblicani avevano preso il potere dopo quasi quarant’anni di regno sonnolento e feudale. Il re Zair non se la prese più di tanto e rimase in Italia fino ai nostri giorni. La lunga strada che corre nel sud dell’Afghanistan fu costruita, per ragioni di equidistanza, metà dai russi e metà dagli americani. Era facile, percorrendola, affiancare lunghe carovane di nomadi Kuci, termine pashtò che significa “gente che va”. Del tutto simili per usi e costumi ai nomadi dell’India occidentale i Kuci nei loro spostamenti si fermavano ogni tanto a riposare nelle rare oasi. Allora in Afghanistan c’era molta povertà ma, come a volte paradossalmente capita, anche molta allegria. Le cose semplici, le quotidiane conquiste dell’esistenza in questa terra ostile, la partenza su uno sgangherato autobus per andare a Kabul, la capitale, sotto l’occhio della nostra ronzante otto millimetri, diventavano così eventi memorabili. Ricordo in noi un senso di grande felicità ed euforia. La via dell’India era veramente “Il Viaggio”. Da un lato l’ingenuo entusiasmo per la nostra piccola grande avventura, dall’altro l’incapacità di capire fino in fondo un paese così complicato e variegato. Era l’incontro con un qualcosa che appariva a noi comunque ignoto, dunque misterioso, quindi avventuroso. Spesso, lungo la strada ci imbattevamo in piccoli gruppi di donne avvolte nei loro inquietanti burka colorati. Non molti sanno che la tradizione di velare le donne è di origine cristiana ed inizia come costume nelle città dei bizantini per poi essere adottato dagli arabi conquistatori quando questi si urbanizzarono .. Anche negli anni settanta si vedevano molte più donne coperte nei centri abitati e, nonostante il burka non fosse obbligatorio ma addirittura in qualche modo scoraggiato, era proprio a Kabul, l’emancipata capitale, che non si riusciva più a vedere il volto di una donna se non allo sportello di una banca o di un ufficio postale. Kabul! 1800 metri. Il clima più dolce dell’Asia diceva Babur nel XV sec… Frutta squisita…grande animazione, Il bazar Char Chatta era diviso per generi commerciali, si va dalla strada dei macellai, a quella degli ortaggi, a quella dei lapislazzuli, a quella dei pneumatici usati o delle officine per camion mentre intere strade, come la famosa “chicken street”, erano allora popolate quasi esclusivamente da hippies. Medioevo musulmano ed espansione della coscienza, Maometto e Allen Ginsberg convivevano non sempre pacificamente in una delle città più affascinanti dell’Asia. |
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Claudio desidera che il ricavato sia versato al
Tibet Children
Village di Choglamsar (Ladakh)
ed alla
Lamdon Model High School
in Zanskar (33%=10€).