Diario indiano
Concepite come annotazioni private, appunti sparsi in cui anche l'ordine cronologico viene a volte a mancare, le pagine del diario indiano di Allen Ginsberg, scritte per sua stessa ammissione senza pensare alla pubblicazione integrale, non vogliono essere la fedele registrazione di una vicenda autobiografica legata a un viaggio. Il viaggio naturalmente c'è, ed è quello compiuto dall'autore nella penisola indiana tra il marzo del 1962 e il maggio del 1963, in compagnia dell'amico Peter Orlovsky e di Gary Snyder, anche loro poeti della beat generation; e ben avvertibile è anche la dimensione "on the road" del libro; ma le tappe di questo percorso, annotate disordinatamente e spesso intuibili solo per rapidi accenni, non sono soltanto Delhi, Rishikesh, l'Himalaya, Benares o Calcutta. Ben più intensa è la dimensione introspettiva del viaggio indiano di Ginsberg, scandito dai tentativi di una presa di coscienza diretta e partecipata alla vita indiana che si compie attraverso la ricerca di un guru, abitando in case lungo i ghat crematori di Benares o di Delhi, conversando, fumando oppio e accompagnandosi per lunghi tratti con sadhu, gli yogin, i poeti e i sapienti della cultura indù. Il tentativo dell'autore è quello di immergersi nell'India, piuttosto che di conoscere l'India, che così diviene soprattutto il luogo ideale per un'esperienza spirituale. Assai lontano quindi dal poter essere letto come una cronaca o un reportage, il Diario deve la sua suggestione non solo e non tanto al valore storico e documentario delle sue annotazioni (dopo Ginsberg, la cultura indiana entrerà nel mondo beat e diverrà uno dei tratti più autentici del movimento del Flower Power), quanto piuttosto al fascino visionario che emanano le sue pagine, in cui le poesie "urlate" si alternano agli stati di allucinazione, le descrizioni cittadine alle trascrizioni dei sogni, le risposte laconiche dei guru agli smarrimenti dell'uomo messo di fronte all'insondabilità dello spirito.
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