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21 settembre 2002
CRISTOBAL COLON Sulla cima più alta della Sierra
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Camminare per le montagne, vivere giorno per giorno il ritmo della vita di un campo mobile, rimanere isolati in valli lontane e sconosciute: è una febbre che periodicamente mi assale e mi spinge verso nuovi percorsi. Quest'anno ho cosi realizzato un desiderio vecchio di anni: salire sulla cima più alta della Sierra Nevada di Santa Marta in Colombia. Per i geografi questa dorsale, isolata fra l'Amazzonica ed il mare, è la catena costiera più alta del mondo. I suoi ghiacciai perenni guardano, dai 5.775 metri del Cristobal Colon (Cristoforo Colombo), verso i Caraibi e le sue pareti scoscese scendono fino alla selva avvicinando cosi una natura tanto diversa. Per gli antropologi, la Sierra è il rifugio degli ultimi discendenti della scomparsa civiltà Tairona. Per gli alpinisti è una serie di vette, in gran parte ancora inviolate, fra le quali ha operato negli scorsi decenni quell'appassionato alpinista ed esploratore che fu Ghiglione.
E così, in un pomeriggio di luglio, finalmente partiamo, piccola spedizione eterogenea per età e per CAI di provenienza: Agostino, Francesco, Grazia, Laura e Marco, con destinazione Valledupar, con il caldo improvviso e la paura dei furti instillata dalle informazioni forniteci in Italia. Informazioni che si riveleranno inesatte, in tutta la vacanza non subiremo mai un furto! In questa città di 130.000 abitanti, posta ai piedi della Sierra a 170 metri dì quota, il sole è una costante tutto l'anno.
Tutt'intorno è circondata da una natura lussureggiante, tipicamente subtropicale. La popolazione è eterogenea, composta da indigeni, mulatti, meticci e bianchi, richiamati da un terra fertile. La gente è di natura allegra, come del resto lo sono tutti i Colombiani. La musica locale, il balienato, ascoltata a volume altissimo, da ritmo alla vita quotidiana.
All'aeroporto ci accoglie il senor Orlando Consuegra, un'istituzione per chi va alla Sierra, con le sue Toyota fornisce un servizio efficiente e sicuro, così, in meno di tre giorni, giungiamo da Brescia al villaggio indio di Nabusimake. Siamo ospiti del Gnocco, soprannome dell'anziano senor Antonio Rosado, un blanco amico degli Indio: piantiamo le tende nel prato fra la curiosità dei ragazzi che tiene a pensione nel periodo scolastico. Per entrare nel territorio Arhauco chiediamo i permessi necessari con l'aiuto della signorina lngrid, simpatica e carina segretaria del Commissariato di Polizia Indigena.
Le tribù che occupano la Sierra Nevada discendono dalla civiltà Tairona, appartenente alla famiglia Chibeba che diede poi origine alla civiltà indigena colombiana. In tutto sono censite circa 10.000 persone, divise in tre gruppi: Kaggaba, o Kogi, circa tremila, che vivono presso le rovine della cosiddetta Ciudad Perdida; i Malay o Sanka, il gruppo più numeroso con 4000 indigeni ed infine gli Ijka o Arhauco, una grande tribù di 3000 individui. Fuggendo agli Spagnoli i loro antenati si rifugiarono sulla Sierra dove le montagne offrivano rifugi sicuri e poco accessibili. Dal 1982 il governo ha riconosciuto come loro il territorio nella Sierra e di questo gli Arhauco parlano con fierezza, anche se ammettono che nonostante tutto, la loro economia inizia a dipendere dall'esterno.
È domenica mattina ed alle nove inizia la marcia: undici giorni fuori del mondo, con la certezza matematica che nessun altro turista è entrato nel parco nel corso della nostra permanenza. Durameina e Mamancana, i villaggi nei quali facciamo tappa, sono composti di tre, quattro case dove vivono un paio di famiglie. Oltre i 2000 metri gli Arhauco vivono di pastorizia, più in basso coltivano il caffè e la canna da zucchero. Ogni famiglia ha una economia legata a quella dei parenti. I vari nuclei occupano zone climatiche differenti in modo che la famiglia è in complesso autosufficiente poiché ogni nucleo riceve dagli altri quello che non si può ottenere nel proprio territorio. I giovani viaggiano costantemente con muli e cavalli, tenendo i contatti fra i parenti portando derrate, pelli, lana, notizie e... cercando moglie. Gli Arhauco non sono occidentalizzati, indossano un vestito (mac) simile al poncho, di color bianco e senza maniche, una fascia attorno alla vita, i sandali ed il copricapo (tutusoma) a pan di zucchero. Inseparabile è il machete. Quando li incontriamo sul sentiero si presentano fieri ma anche incuriositi. Gli uomini portano i capelli lunghi e fanno uso di coca come le popolazioni delle Ande. Quando si incontrano fra loro si scambiano le foglie in segno di amicizia.
La coca, proibita alle donne, viene tenuta nella mochila-tutu, inseparabile borsa. Le foglie sono mischiate a polvere di conchiglie marine (cal) e producono effetti stimolanti in modo di attenuare la fatica delle marce. Sono, infatti, gran camminatori. Il cal è tenuto in un contenitore chiamato "poporo", che oggigiorno consiste in una zucca ma che un tempo era d'oro (e ne abbiamo visti di stupendi al Museo dell'Oro di Bogotà).
Al
terzo giorno lasciamo anche le ultime case e la scarsa vegetazione (per
lo più seneci) dei tremila metri, raggiungendo la zona dei laghi.
Questi, disposti a diverse altezze, sono di varie dimensioni e non hanno
nome tranne la Laguna Naboba che è considerata sacra. Quassù gli
Arhauco salgono in pellegrinaggio per fare bagni purificatori e disporre
offerte ai numi tutelari: i Mama. Altri tre giorni, poi i muli non riescono
più ad arrampicarsi sulle rocce, carichiamo tutto in spalla e procediamo
fino al campo base. Vi arriviamo nella nebbia e nella pioggia, carichi
di cibo, attrezzatura, pentole e corde. Ci sistemiamo su una spianata sassosa,
presso una pozza d'acqua. C'è posto solo per tre tende e scavando
nella ghiaia affiora l'acqua.
Domani riposo ed acclimatazione, ma ce la faremo?
Cosa sceglieremo di fare se anche uno solo di noi stesse
male?
I cavalli sono tornati ai pascoli a tre giorni di cammino.
Scenderemo tutti?
Scenderà uno per accompagnarlo ed in tre da soli
tenteremo la vetta?
E
così, nella notte fra sabato e domenica, si va... ma il
percorso sul ghiacciaio non è agibile. Ora è metà
luglio, siamo alla fine del "veranillo", il breve periodo di bel tempo
che capita all'inizio della nostra estate: una coltre uniforme ammanta
il pendio, sotto i ponti di neve i crepacci sono indistinguibili. Scegliamo
di risalire un canale fra il Picco Bolivar ed il Picco Cristobal. Se Grazia,
che apre la prima cordata, compie tre passi avanti e due indietro, altrettanto
capita a me che, essendo il più pesante, ho il terrore di
scomparire in un crepo. Gli ultimi metri li apre Agostino che ansando sbuca
sul colle fra Cristobal e Bolivar.
Ci liberiamo di sacchi e corde e procediamo tranquilli
tenendo d'occhio l'enorme cornice. A trenta metri dalla cima cambio il
rullino e la macchina si sblocca per il freddo, non avrò foto ricordo
della nostra vetta, che delusione! Ma non importa, Laura, Ago e Grazia ce
l'hanno fatta!