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21 settembre 2002
Sul tetto del mondo |
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di Marco Vasta - foto di Stefano Pensotti
La Grand Trunk Road mantiene ancora il suo rango
imperiale, indicata come Highway Number "1", percorsa da un traffico
intenso e affiancata da decine e decine di fabbriche.
È il nuovo volto della
Grande Madre India che la liberalizzazione del mercato statale rafforza come
potenza industriale di primo piano. Il flusso dei veicoli corre parallelo al
tracciato originario, la grande arteria voluta dai Moghul, con ponti e posti di
guardia. Una fila di platani e tigli la costeggia da Delhi a Lahore; un'ombra
che diede riposo a Kim ed al suo lama nel vagabondaggio alla ricerca del Dharma.
Anche noi abbiamo una méta: raggiungere via terra il Ladakh, la più intatta area di cultura tibetana dopo che nel 1950 la Cina ha invaso il "paese delle nevi", il Tibet governato dai pontefici di Lhasa. Pellegrini di fine millennio non sgraniamo il rosario con 108 grani, ma, più pragmatici, impugniamo obiettivi fotografici. La nostra avventura inizia a New Delhi e attraversa lo stato dell'Aryana toccando la capitale Chandigar: un'assurdità urbanistica con l'ordinato impianto ideato da Le Corbusier e larghissime strade che fanno rimpiangere la vitalità dei bazar indiani. Lasciamo la "1" per affrontare le pendici prehimalayane delle colline Siwalik, un saliscendi che ci porta a Simla, cittadina che nulla conserva del glamour di capitale estiva del Raj britannico. Il monsone incombe su di noi, la strada si perde nelle nuvole per poi abbassarsi a fianco degli fiumi impetuosi che spumeggiano e travolgono ogni cosa portando verso la pianura i tronchi che le frane hanno strappato dalle montagne dell'Himachal Pradesh.
Al terzo giorno giungiamo a Manali, in un caos frutto della guerra e del benessere economico. Lassù, in Baltistan, Ladakh e Aksai Chin, il confine è conteso fra Pakistan, India e Cina. Per rifornire la "linea di cessate il fuoco", l'esercito invia i rifornimenti lungo la strada che stiamo percorrendo e strombazzanti processioni di camion si fanno largo fra una folla di indiani in vacanza. Questi paffuti turisti ci incuriosiscono più delle centinaia di mezzi posteggiati in attesa di affrontare la traversata himalayana. Motociclette giapponesi, pulmini e fuoristrada economiche sono gli status symbol di una classe media ormai emergente dalla miseria del subcontinente. Li osserviamo a passeggio su "The Mall": uno "struscio" fra gas di scarico e bancarelle dei tibetani. Li incontriamo ai 4000 metri del passo Roathang dove matrone in sari si proteggono dal freddo con stivali e pellicce noleggiate. Fanno tanto Italia anni 50, quando di domenica si andava sulla neve in giacca e cravatta.
Scendiamo a Keylong nella valle del Lahul, una enclave che rimane isolata di inverno, un nome che echeggia ricordi del "grande gioco" quando solo gli avventurieri al soldo di inglesi e russi, affrontavano queste valli. Oltrepassato il Baralacha-la lasciamo alle spalle i boscosi pendii alpini dei versanti meridionali dell’Himàlaya per entrare in un ambiente diverso. Addio verdi conifere e luccicanti torrenti: il paesaggio si fa aspro ed un vento secco mozza il respiro. È un deserto dai colori brulli e dai cieli blu cupo dell’alta quota. Cambia l’orografia e cambiano gli elementi del paesaggio umano. La pista è affiancata da mendong curiosi muri, caratteristici del Ladakh, larghi anche due metri e lunghi a volte cento, eretti con migliaia di pietre che la fede e la pazienza degli uomini ha cesellato con immagini o frasi sacre. Ai lati della strada o sui crinali scorgiamo i ciortèn, sorta di cubo sormontato da una cupola e da un pinnacolo, reliquiario di varie dimensioni che contiene ceneri o corpi di santi uomini o resti di arredi liturgici.
Viaggiamo in un territorio completamente montuoso, ad un’altitudine superiore ai 4.000, fra mille corrugamenti di valloni, creste, montagne e colline sabbiose. Da Giugno ad Ottobre quest’unica strada, più o meno asfaltata, congiunge l’India con il Ladakh, il paese degli alti valichi; negli altri mesi una coltre di neve chiude i passi himalayani ed isola la regione fino all'estate quando i genieri dell’esercito riescono ad aver ragione di valanghe e frane.
Il percorso ricalca un'antica carovaniera: il Ladakh è stato crocevia fra Kashmir e Tibet, fra Turkestan ed India, passaggio obbligato fra le steppe dell’Asia Centrale e le piane gangetiche. Tracciati commerciali attraversavano l’Himàlaya e consentivano scambi di riso, salgemma, spezie e lana, tessuti e preziosi e soprattutto di idee. Di qui transitarono i pellegrini cinesi nel IV secolo per raggiungere le università buddhiste dell’India, i missionari gesuiti diretti in Tibet, gli esploratori che nell’800 si avventuravano verso le sconosciute catene della Transhimàlaya. Quattrocentotrenta chilometri di paesaggi grandiosi, ma anche di frane, smottamenti, soste forzate dovute ai frequenti incidenti, che da Manali ci chiedono ancora tre giorni di viaggio affrontando altri colli prima di "scendere", alla ragguardevole quota di 3.600 metri, nel grande bacino formato dal Senge Kabab, il fiume che scorre dalla bocca del leone, in poche parole l’Indo.
"So so Lha Gyalo" "Gli dei hanno vinto" grida l'autista fermando il 4x4 che ci ha portati quassù, ai 5429 metri del Taglang-La, il valico più alto sul nostro percorso verso il Ladakh. La jeep è ferma proprio in fianco ad un labce, un cono di pietre su cui si erge un palo con un'infinità di bandiere colorate che il vento teso scuote e sbatte senza sosta. Aggiungiamo anche noi una pietra bianca al cumulo. Un rito millenario che ripetiamo ad ogni valico per ingraziarci i numi tutelari.
Dall'alto dell'ultimo passo lo sguardo spazia a nord verso i Karakorum mentre, ad oriente, "colline" di seimila metri addolciscono il paesaggio che degrada verso l'acrocoro tibetano. Il turismo è permesso in Ladakh dal 1974, ma alcune zone, come il Nubra od il Ciangtang che stiamo costeggiando, sono aperte solo dal 1996. È una regione desertica, priva di villaggi, dove attorno al lago Tso Moriri i nomadi Ciang-pa con greggi di pecore e yak continuano un'esistenza arcaica come quella dei loro antenati che accolsero la predicazione buddhista portata da Guru Rimpoché. Costretti ogni giorno a convivere con la natura, non cercano di assoggettarla, ma si adattano ad essa e sanno sapientemente sfruttarla per coglierne magri frutti. Così da sempre il Tibetano comprende la pochezza umana ed è spinto a cercare Dio. La religione permea la vita di tutti i giorni e la terra ladakha è una porta che conduce a comprendere il Vajarayana, cioè il Buddhismo diffuso nelle valli e negli altopiani transhimàlayani.
Usciti dalle orride valli del Rong incontriamo i primi insediamenti dopo centinaia di chilometri, case in pietra, semplici come lo sono quelle di tutte le culture montanare. Facciate bianche a calce, finestrelle al pianterreno in corrispondenza delle stalle e finestre più ampie al primo e spesso unico piano sopraelevato. Negli ultimi anni l’arrivo del vetro ha facilitato la costruzione di grandi finestre poste come solarii ai piani superiori.
I tetti, data le scarse precipitazioni, sono piatti ed usati come terrazze dove vengono poste a essiccare le riserve alimentari invernali. Il parapetto è formato da un ammasso ordinato di ramoscelli, conservati più come simbolo di ricchezza che come combustibile. Queste valli sono prive di alberi, le travi per i tetti vengono penosamente trasportate dalle foreste a sud dell’Himàlaya.
Siamo in un deserto d'alta quota dagli incredibili colori, piramidi di roccia verde, viola o blu ardesia, l'occhio si sofferma sul verde dei campi e delle colture, rare presenze vegetali nel paesaggio. Nei villaggi uomini, donne e bambini vestono la goncha, lungo panno di pesante tessuto di lana grezza e mentre si recano nei campi recitano il rosario facendo ruotare i khorlo, piccoli cilindri di preghiera. Ogni villaggio è autosufficiente nella produzione di generi alimentari, essenzialmente prodotti cerealicoli e pochi vegetali, e posizioni importanti nella vita della comunità sono quella dell'astrologo e dell'oracolo che presiedono ai riti di questa cultura contadina. Le messi sono ormai mature ed a metà agosto, nella data da loro scelta, inizierà la mietitura fatta a mano. L'orzo ben si adatta a queste quote e a fondovalle, sui 3600 metri, si ottengono anche due raccolti l’anno; nelle oasi superiori n'è possibile solo uno e quando è scarso sicura sarà la fame nell’inverno successivo.
Ed infine la nostra fatica è premiata con l'arrivo a Leh dominata dal castello dei re del Ladakh, imponente bastione tipico dell’architettura militare tibetana con le finestrelle poste ai piani inferiori che si ampliano in leggiadri balconi salendo di piano in piano. Oggi è un rudere, un declino iniziato nel 1848 quando il regno fu conquistato dal Rajah del Kashmir di cui seguì le sorti finché fu annesso all’India nel 1947, eppure da lontano sembra ancora intatto come sono immutati alcuni angoli di Leh: il mercato della frutta, i grandi muri mani, la rocca con il Tsemo gompa dove il vento fa garrire le bandiere da preghiera.
Saliamo ansimando nell’aria rarefatta dei quattromila metri. Il colpo d’occhio è su tutta l’oasi ed è facile comprendere perché il Ladakh è definito un deserto verticale. Dove i canali, che scendono dai ghiacciai, portano acqua, tutto è verde poi iniziano ghiaioni e brulle montagne. Ed in mezzo ad esse ecco i gompa, le "dimore della solitudine", incastrati fra le rocce, e poi mucchi di pietre da cui pendono bandiere di preghiera, ciortén, lhato, muri mani, bandiere di vittoria, grandi ruote di preghiera. Sui pendii formule scritte con pietre bianche, sulle rocce incisioni graffiti, tutto il paesaggio richiama verso la religione. Distrutti i monasteri, abbattuti e spianati i ciortén, dispersi i monaci in Tibet, i pochi esempi che possiamo trovare di organizzazione monastica lamaista sono in Ladakh, dove gli abati fuggiti dal Tibet hanno dato nuovo impulso e vigore alla vita monastica della regione. In Ladakh i monasteri sono vivi, attorno alle sette del mattino i monaci iniziano gli esercizi di culto con le meditazioni del mandala, è possibile ascoltare ancora il salmodiare dei monaci seduti su tappeti lungo le navate del dukang, disposti su file che si fronteggiano, davanti ad ogni fila un tavolino basso su cui si dispongono gli strumenti rituali e i cibi che accompagnano le preghiere che proseguiranno tra dispute teologiche e momenti di meditazione, fino alle sei di sera quando i grandi tamburi e le buccine rituali richiamano i monaci nel dukang per la preghiera che si concluderà col tramonto.
© Marco Vasta - 1998