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un libroper una scuola |
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nelle Edizioni PERIPLO
LADAKH Il paese degli alti passi Fotografie di Stefano Pensotti, Testi di Marco Vasta Formato 28x22, sovracopertina plastificata, 120 pagine, 50 foto a colori. |
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Il volume nasce dallesperienza "on the road" di due viaggiatori, capigruppo di AnM, che interpretano il Ladakh, terra aspra e straordinaria, situata nella regione Himàlaya a 4.000 metri di altitudine.
Le forti e semplici tradizioni di questo popolo muovono in sintonia con la natura circostante, aspra e dominata dai colori netti dellalta quota. La spiritualità che traspare dai gesti, dai volti degli abitanti, dalla morfologia del paesaggio, trova compimento nei monasteri lamaisti, aggrappati sulle alte creste in uno slancio metafisico verso linfinito.
Le
multicolori bandiere di
preghiera, o i sassi votivi
istoriati dai fedeli, sono le
originalissime lettere di un
alfabeto che rivolge il suo
messaggio alla divinità. La
tradizione orale, trasmessa nelle
lunghe veglie invernali, è la
poesia di una cultura che esiste
e tramanda ai discendenti un
patrimonio giunto intatto
attraverso i secoli.
Le
fotografie di Stefano scandiscono
evocativamente il vissuto di
questa terra, integrandosi con i
testi di Marco che utilizza
citazioni tratte da viaggiatori
recenti e passati, dai testi
sacri della tradizione, da
riflessioni di un innamorato
della terra ladakha quale è egli
stesso.
Dalla Introduzione a cura di Marco Vasta
Fra i tanti nomi che nei secoli hanno indicato questa terra, quello di paese degli alti valichi meglio rammenta che una coltre di neve copre i passi himalayani ed isola il Ladakh fino a tarda primavera quando i genieri dell'esercito indiano riescono ad aver ragione di valanghe e frane. In un aspro territorio completamente montuoso, situato ad un'altitudine media superiore ai 4.000 metri e con una superficie grande come Veneto, Piemonte e Lombardia, fra mille corrugamenti di valloni, creste, montagne e colline sabbiose, da Giugno ad Ottobre un'unica strada, più o meno asfaltata congiunge l'India con Leh, la capitale del Ladakh. Partito da Srinagar, dolcissima città del Kashmir disposta fra canali e laghi, il viaggiatore oltrepassa lo Zoji la, il passo delle betulle, lasciando alle spalle i boscosi pendii alpini dei versanti meridionali dell'Himàlaya per entrare in un ambiente diverso. Addio verdi conifere e luccicanti torrenti: il paesaggio si fa aspro ed un vento secco mozza il respiro.
È un deserto dai colori brulli e dai cieli blu cupo dell'alta quota. Ma non solo l'orografia cambia: già al villaggio di Mulbekh un Maitreya (il Buddha che verrà) scolpito su una roccia sottolinea il definitivo passaggio dal Kashmir musulmano ad una regione di cultura e religione buddhiste. La strada militare si snoda affrontando altri colli fino a giungere, alla ragguardevole quota di 3.600 metri, nel grande bacino formato dal Senge Kabab, il fiume che scorre dalla bocca del leone cioè l'Indo.
Quattrocento chilometri di paesaggi grandiosi ma anche di frane, smottamenti, soste forzate dovute ai frequenti incidenti, che richiedono anche due giorni di viaggio ed ecco alla fine la città di Leh, dominata dal castello dei re del Ladakh. Un imponente bastione tipico dell'architettura militare tibetana con le finestrelle poste ai piani inferiori che via via si ampliano in leggiadri balconi salendo di piano in piano. Oggi è un rudere cadente, un declino iniziato nel 1848 quando il regno fu conquistato dal Rajanato del Kashmir di cui seguì le sorti finché venne annesso all'India nel 1947, eppure da lontano sembra ancora intatto così come lo fotografò Vittorio Sella membro della spedizione che nel 1913-14 collegò il sistema geodetico indiano a quello europeo, la più grande fra le tante esplorazioni che negli anni del Raj britannico gli Italiani compirono in queste terre cancellando le ultime chiazze bianche sulle mappe del Karakorum.
Alcuni angoli di Leh sono immutati da come li videro agli inizi del secolo il duca degli Abruzzi o Filippo de Filippi ed altri esploratori ed alpinisti: il mercato della frutta, i grandi muri di preghiera, la rocca con lo Tsemo gompa dove il vento fa garrire le bandiere da preghiera. Saliti quassù, ansimando nell'aria rarefatta dei quattromila metri, il colpo d'occhio è su tutta l'oasi ed è allora facile comprendere perché il Ladakh è definito un deserto verticale. Dove i canali, che scendono dai ghiacciai, portano acqua, tutto è verde poi iniziano ghiaioni e brulle montagne.
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L'apertura dei valichi avviene a Giugno in occasione dell'Hemis tSeciù, festa religiosa che coinvolge tutta la valle essendo questo il monastero più importante e più intatto. Nel 1913 Mario Piacenza girò il primo reportage cinematografico su una festa tibetana erroneamente "danza dei demoni". Una incomprensione comune ad altri viaggiatori, in realtà le maschere che i monaci indossano durante le cerimonie quando si muovono con passi cadenzati e gesti ieratici, non sono rappresentazioni di esseri malvagi: esse rammentano l'aspetto "irato" delle divinità. Del resto gli officianti usano oggetti liturgici quali campanelle o turiboli con incenso e questo facilitò la diceria propagata da mercanti, e confermata anche da Guglielmo da Robruk nel '200, che in Tibet vi fossero comunità cristiane isolate. Tanto forte questa voce che Propaganda Fide inviò Gesuiti e Cappuccini in Tibet. E fu proprio un italiano, Ippolito Desideri S.J. da Pistoia, che primo descrisse il Ladakh, il "secondo Thebet" raggiunto nel corso dei tre anni di viaggio da Roma a Lhasa.
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La visita della piana di Leh, raggiungibile in macchina pur fra mille difficoltà od oggi anche in aereo, da sola non offre una comprensione approfondita della regione. Meglio camminare che vedere un paese attraverso i vetri di un torpedone e quale opportunità migliore delle piste che si snodano congiungendo le oasi di fondovalle e superando valichi di oltre cinquemila metri? Per secoli il Ladakh è stato crocevia carovaniero fra Kashmir e Tibet, fra Turkestan ed India, passaggio obbligato fra le steppe dell'Asia Centrale e le piane gangetiche. Questi tracciati commerciali che attraversavano l'Himàlaya, consentirono gli scambi di riso, salgemma, spezie e lana, tessuti e preziosi e soprattutto di idee. Di qui transitarono i pellegrini cinesi nel IV secolo per raggiungere le università buddhiste dell'India, i missionari gesuiti diretti in Tibet, gli esploratori che nell'800 si avventuravano verso le sconosciute catene della Transhimàlaya.
Camminare per conoscere vuol dire addentrarsi nelle remote valli di Nubra o Markha. Piste che si inerpicano su pendii scoscesi e speroni rocciosi. Percorsi lunghi anche trecento chilometri come quello che dall'India giunge presso Leh attraversando la regione del fiume Zanskar, considerata da molti studiosi come la più intatta area di cultura tibetana dopo che nel 1949 la Cina ha invaso il "paese delle nevi", il Tibet governato dai pontefici di Lhasa. La giornata è scandita da ritmi precisi e da gesti antichi: l'arrivo del sole che asciuga le tende, il carico degli animali da soma; la partenza dall'oasi nella quale si è pernottato per addentrasi fra gole e valloni. Questi sentieri "che hanno un cuore" sono forse gli ultimi strumenti che abbiamo per cercare di meglio comprendere civiltà che sembrano lontane nello spazio e nel tempo e che poi tanto lontane non sono perché qui ritroviamo gesti e abitudini di una cultura materiale che fu dei nostri nonni non molti decenni orsono. Passo dopo passo per incontrare persone condividendo un sorriso, uno scrutarsi reciproco. Camminando accanto ai cavallanti od ai portatori, si scopre anche il loro stile di vita come. quando a sera si divide il tè attorno al fuoco. Bevanda ristoratrice se preparato all'occidentale con lo zucchero, ritemprante ma ostica al nostro palato se consumato alla tibetana: acqua, tè, burro e sale. E così ci si accosta all'arte culinaria ladakha, come gli schiu, sorta di orecchiette alla pugliese condite con verdure piccanti; il riso, alimento pregiato quasi un piatto della domenica, che ricorda i gesti di un tempo quando le nostre madri lo acquistavano sfuso e poi lo mondavano da pula o sassolini; la tsampa, orzo tostato e macinato, alimento precotto ed estremamente energetico è una farina che si butta in bocca o in pallottoline ammorbidite dal tea e che acquistano un sapor di castagnaccio. È una alimentazione povera e frugale in cui la carne è un lusso, tanto che la porzione che noi assumiamo durante un pasto è sufficiente per una intera famigliola.
Spostandosi fra i villaggi la speranza è di intravedere la fauna himalayana, che sò un'aquila, un grifone, il leopardo delle nevi. In realtà oltre ai cavallini da soma si incontrano tantissimi ovini, i kyang ovvero gli asinelli e poi bovini fra i quali lo yak, un bestione dal mantello a pelo lungo che raggiunge i sette quintali quando si aggira allo stato brado sui pascoli a 5.000 metri e che ormai è quasi sempre addomesticato ed ibridato con vacche e zebù. E' un animale del quale tutto si usa come il nostro maiale. Bizzoso perché timido, ottimo per la soma, può essere cavalcato, fornisce un latte un molto grasso, non sempre bevibile ed utilizzato per il formaggio e per il burro che viene stemperato nel tè, bruciato nelle lampade, spalmato su viso e capelli per proteggerli dal sole, dall'aria e dalla disidratazione. Chi si avventura sui sentieri del Ladakh in tarda primavera vedrà le oasi nel verde tenero dei campi di cereali. La maggior coltivazione è l'orzo che ben si adatta a queste quote. Poi le messi maturano e dopo metà agosto inizia la mietitura fatta a mano. Nei fondovalli più bassi, sui 3600 metri, si ottengono anche due raccolti all'anno; nelle oasi superiori ne è possibile solo uno e quando questo è scarso sicura sarà la fame nell'inverno successivo.
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Camminando comprendi il rapporto stretto che hanno i Ladakhi con la pietra. Te ne accorgi ai valichi dove vengono eretti cumuli di sassi ai quali ogni viandante aggiunge il suo al grido di "So so Lha Gyalo" "Gli dei hanno vinto" per propiziarsi i numi tutelari di queste altitudini. Pietra che ritrovi nei recinti approntati come trappole per i predatori come lupi, linci o leopardi delle nevi affiancati da un nuovo predatore che si aggira in Himàlaya: il turista che asporta le pietre istoriate dai "mendong". Queste curiosi manufatti, caratteristici del Ladakh, larghi anche due metri e lunghi a volte cento, sono stati eretti con migliaia di pietre che la fede e la pazienza degli uomini ha cesellato con immagini o frasi sacre. Importante la pietra nella architettura religiosa, la cui espressione maggiore sono i ciortèn, sorta di cubo sormontato da una cupola e da un pinnacolo, reliquiario di varie dimensioni che contiene ceneri o corpi di santi uomini o resti di arredi liturgici. Pietra che nell'architettura civile permette di erigere case semplici come lo sono quelle di tutte le culture montanare. Facciate bianche a calce, finestrelle al primo piano in corrispondenza delle stalle e finestre più ampie al primo e spesso unico piano sopraelevato, secondo il noto principio del calore animale che scalda il piano superiore. Negli ultimi anni l'arrivo del vetro, spesso a dorso d'uomo per preservarlo, ha facilitato la costruzione di grandi finestre poste come solarii ai piani superiori. I tetti, data le scarse precipitazioni, sono piatti ed usati come terrazze. Il parapetto è formato da un ammasso ordinato di ramoscelli, più usati come simbolo di ricchezza che come combustibile in una regione che ha pochissimi alberi tant'è che le travi per dei tetti a terrazza vengono penosamente trasportate dalle foreste aldilà dell'Himàlaya.
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In un paesaggio così brullo è immediatamente comprensibile l'amore per i colori. Recinti di pietra e spine proteggono le poche macchie di verde allietate dai fiori. Amore per i colori che trova espressione nei foulard e nei cappelli femminili detti perak ornati da ambre, turchesi, argenti, coralli e altre pietre dure semipreziose. Questi originali copricapo vengono orgogliosamente indossati anche nella vita quotidiana dalla donna ladakha che ha un ruolo importante nella struttura sociale tibetana. Nei mesi estivi, quando gli uomini si allontanano con le carovane dedicandosi al commercio, sono loro a guidare gli affari familiari e dall'alba al tramonto organizzano il lavoro nei campi, il pascolo delle mandrie, la raccolta di rametti dagli arbusti e la lavorazione dello sterco animale trasformandolo in formelle di combustibile. Ai lavori dei campi ed alla custodia delle greggi collaborano anche i bambini, investimento della famiglia, creature con bassa speranza di vita in un ambiente così ostile, ai quali il governo cerca di fornire un'istruzione ma come si può andare a scuola quando è lontana tre, quattro ore di cammino da fare ogni giorno a piedi scalzi su sentieri dal rude fondo sassoso? In questo ambiente montanaro e rurale gli anziani rivestono ancora un ruolo importante. Chi scampa a incidenti o malattie, a febbri puerperali od epidemie, riesce a raggiungere età venerande e soprattutto rimane, membro autorevole del villaggio e ascoltato capo della famiglia.
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Costretto ogni giorno a convivere con la natura, non assoggettandola ma adattandosi ad essa e in tal modo sapendola poi sapientemente sfruttare per coglierne magri frutti, l'uomo comprende la nostra pochezza ed è spinto a cercare Dio. In Ladakh la religione permea la vita di tutti i giorni sia nei comuni momenti della cultura materiale tant'è che è difficile compiere una divisione fra società laica e mondo religioso.
La terra ladakha è una porta che può condurre a comprendere il Vajarayana, cioè il Buddhismo diffuso nelle valli e negli altopiani transhimàlayani, seppure la complessità dei segni esteriori confonda e sgomenti chiunque si accinga a voler delineare e semplificare i principi di una religione che si presenta con una quantità innumerevole di divinità, demoni e santi che all'interno dei monasteri, dalle pareti dei templi, assalgono il pellegrino ed il viaggiatore con le loro raffigurazioni ora cupe ora cangianti. Siddharta nulla disse dell'esistenza di Dio, affermò solo che il mondo è sofferenza e che tutti gli esseri patiscono in un ciclo infinito di nascita, dolore e morte. Unica via di uscita è il raggiungimento del nirvana, cioè l'abbandono di questa catena di esistenze sofferte rappresentate dalla "ruota della vita". Venne chiamato "Buddha", l'Illuminato, per questa intuizione che portava una luce di speranza ai milioni di diseredati del continente indiano. Semplice fu la sua predicazione, pochi e lineari i principi. Nei secoli i discepoli, i concili, le rivalità fra i teologi, portarono a correnti, dogmi, sette e chiese. Poco più di mille anni fa il Buddhismo valicò l'Himàlaya propagandosi dal Ladakh verso oriente fino al Tibet. La semplice confessione buddhista, arricchita da forme esoteriche quali il tantrismo indiano, seppe adattarsi a questi grandi spazi ed alle credenze delle genti che quassù vivevano presentandosi come la "via di diamante", che noi conosciamo come lamaismo dal titolo che indica i monaci di più alto grado.
Al fedele offre la possibilità raggiungere il nirvana anche in una sola vita ma i più compassionevoli fra gli "illuminati", i Bodhisatva, scelgono di rimanere su questa terra per recare salvezza a tutti gli uomini. A Buddha, venerato come divinità e non più come profeta, si affiancarono così innumerevoli esseri divinizzati senza però tralasciare entità minori, numi tutelari, personaggi della cosmogonia tibetana preesistenti all'arrivo del Buddhismo. Si formò un pantheon meravigliosamente rappresentato da una iconografia che segue canoni ormai antichi e consolidati. Queste rappresentazioni che agli occhi del religioso istruito sono allegorie o personificazioni di stati mentali o psichici, di virtù e vizi, tutti elementi di uno psicodramma che si svolge qui in questo mondo di apparenze, agli occhi del semplice fedele sono divinità ben distinte alle quali fare appello e chiedere protezione nella lotta per la sopravvivenza. Al tempo stesso la semplice comunità primitiva dei discepoli, la Sangha, in Tibet si trasformò in un potenti ordini monastici che lo organizzarono in uno stato teocratico mentre negli altri regni himalayani, come Buthan e Ladakh, i grandi lamasteri influenzavano la vita sociale e politica.
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Ad ottobre le prime nevicate isolano il Ladakh, inizia un lungo autunno che è già un inverno precoce. La temperatura notturna scende lentamente di notte in notte portandosi sotto zero. La breve stagione turistica termina. I grandi templi che ospitano statue gigantesche di Buddha rimangono silenziosi e vuoti. Molti monaci, specie i più anziani, scendono verso il caldo della piana indiana. Nelle case e anche nei monasteri femminili, come quello di Julichen, donne e monache terminando le ultime filature e tessiture ed approntano caldi panni in lana per l'inverno. Man mano che la temperatura scende, talvolta fino ai -35° notturni, aumenta il numero di casacche che vengono indossate. I bambini scorazzano liberi prima che la neve impedisca gli spostamenti dedicandosi a giochi semplici come il tiro con l'arco. Dalle valli più remote di Zanskar e Nubra e dagli altopiani del Ciang Tang pastori e nomadi si affrettano a Leh per le ultime compere e gli ultimi baratti prima di rimanere isolati del tutto nelle malghe lontane.
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Ed il volger delle stagioni porta in breve al solstizio d'inverno, momento sottolineato dalle feste del capodanno ladakho. "L'inverno è fatto per il riposo, è per noi il momento in cui godiamo dei frutti del nostro lavoro estivo". Tanto era intesa e lunga la giornata estiva tanto è calma e breve quella invernale. Fino alle nove del mattino la famiglia resiste al freddo sotto coperte e pelli di yak. Quando il sole ha scaldato l'atmosfera c'è una frugale colazione, poi la giornata scorre fra piccoli lavori di manutenzione come spalare il tetto dalle nevicate e anche dedicando il tempo alle preghiere nella cappella di famiglia che si trova in ogni casa. Dalle stalle, poste al pianterreno, escono capre e mucche condotte alle poche sorgenti rimaste attive. I bambini sciamano fra le case inventandosi sci rudimentali ed altri semplici giochi.
Ma non sempre la vita scorre tranquilla. Improvvise e concitate battute di caccia rompono il silenzio cristallino: predatori, spesso lupi, si aggirano in prossimità dei villaggi. Ed infine giunge l'interminabile notte con veglie prolungate fino alle quattro del mattino successivo: canti e danze, occasioni di incontro e mondanità, organizzate a turno dalle varie famiglie. Decine e decine di litri di ciang, leggera birra fermentata di orzo, densa come la minestra di patate, ed estenuanti chiacchierate. Poi fra l'attenzione ed il silenzio di tutti i convitati gli anziani intonano antiche melodie e canti che elencano le genealogie delle famiglie. È un momento fondamentale: il trapasso delle nozioni fra generazioni. È nelle veglie, che tanto ricordano quelle che si tenevano fino a pochi decenni fa nelle nostre stalle, che da oltre mille anni i Ladakhi apprendono le tradizioni e imparano a tramandarle.
Purtroppo oggi questo non è più sufficiente ed oltre al conservare della propria identità culturale i giovani dovranno saper leggere i mutamenti in corso e per far questo occorrono più scuole, più istruzione. Solo così avranno gli strumenti per comprendere e confrontarsi con i modelli di sviluppo occidentali. È questa la sfida che il Ladakh deve affrontare nei prossimi anni. Altrimenti scomparirà anche l'ultimo Tibet.
Gli autori hanno ceduto i diritti all'associazione Les Cultures che devolve il ricavato alle scuole da lei patrocinate in Africa
Il ricavato da questa vendita on line è devoluto alla
Lamdom
Model School di Pibiting in Zanskar (Himàlaya
dell'India)