La grande civiltà urbana dell’Indo è stata probabilmente preceduta da un periodo di cultura di villaggio. Il primo di questi villaggi, Amri, venne scoperto nel 1929 nel Sind (ora Pakistan). È impossibile dire quanto tempo sia occorso affinché la cultura dei villaggi raggiungesse il livello di civiltà urbana, sviluppando in modo adeguato l’approvvigionamento di grano ed orzo delle città nonché sviluppando quelle capacità necessarie per un salto, in quei tempi prodigioso, nel giro di un breve periodo, forse cinquecento anni, forse di più.
I monumentali lavori di scavo di Mohenjodaro (tumulo della morte), di Harappa (Pakistan) e quelli di Lothal (Gujurat) sono stati una fonte importante per la ricostruzione della storia del subcontinente.
I ritrovamenti effettuati hanno permesso di comprendere che i dasa, o schiavi prearii, la cui pelle più scura costituiva il segno distintivo rispetto al «colore» degli Arii, erano più progrediti, raffinati e tecnologicamente avanzati delle orde semibarbare degli Arii invasori la cui «civiltà» sembra ridursi solo ad un miglior armamento ed all’utilizzo di cavalli imbrigliati.
La civiltà dell’Indo, di cui è stata trovata traccia in almeno settanta località, si estendeva sopra un milione e trecentomila chilometri quadrati (quattro volte l’Italia) nel Punjab e nel Sind, dalle zone di confine del Baluchistan agli attuali deserti del Rajasthan (India), dalle colline ai piedi dell’Himàlaya alle montagne del Gujurat (India). È in questo stesso periodo, oltre quattromila anni fa, che nella valle dell’Indo si iniziò a filare il cotone ed a tesserlo per farne stoffe che venivano anche tinte. Fu l’inizio di un’attività industriale e commerciale che tuttora caratterizza il mercato del subcontinente ed è anche uno dei maggiori contributi che questa civiltà diede al mondo intero.
Durante il periodo della cultura dell’Indo scomparvero sia l’economia di sussistenza basata su caccia e raccolta di cibo, sia quella dei piccoli villaggi: vennero sostituite da un’economia basata su più raffinate tecniche agricole di irrigazione ed inondazione, e su commerci in larga scala da poter sopperire alla numerosa popolazione urbana. V’erano raccolti di frumento, ma anche di riso, piselli, datteri, semi di senape e sesamo. Iniziò l’allevamento di alcuni animali e la convivenza con altri: cani, gatti, cammelli, pecore, maiali, capre, bufali d’acqua, zebù ed elefanti.
Intorno al 2000 a.C. le tribù seminomadi, che vivevano fra il Mar Nero ed il Mar Caspio, vennero sospinte via dalle loro terre forse da un disastro naturale. Antenati dei popoli che avrebbero parlato i linguaggi italici, greci, germanici, celti, iranici, indoarii, essi erano organizzati in piccole tribù, comunità chiuse che si spostavano con il loro bestiame di armenti e mandrie: la loro migrazione aprì un capitolo nuovo nella storia dell’Europa e dell’India. Fra le tribù che si spinsero ad oriente, alcune raggiunsero la zona dell’attuale Iran (nome da collegarsi agli Arii che vi portarono la lingua indoiranica fra il 1800 ed il 1500 a.C.). Successivamente alcune tribù, quelle che oggi indichiamo come indoarie, si spinsero ancora più ad est, valicando i monti dell’Hindu Kush e raggiungendo le pianure dell’Indo. La società vedica, le sue credenze religiose ed il sistema delle classi delle popolazioni arie si compenetrò con le distinzioni fra le classi delle popolazioni preesistenti. Il pantheon di divinità legate alla natura (una trentina di dei fra i quali Indra, Varuna, Agni, Soma) si arricchì di nuove divinità superiori le cui caratteristiche di omnicomprensione sono più simili al dio monoteistico che ad uno panteistico. Sotto la spinta di una classe sacerdotale sempre più potente e libera di dedicarsi ad attività speculative e filosofiche la cultura degli Arii iniziò a porsi domande ed a trovare soluzioni ai problemi destinati a rimanere impenetrabili in sincretismo con le preesistenti ed antiche forme locali di religione.
Non vi sono ritrovamenti che illustrino la cultura materiale di queste popolazioni nel periodo fra il 1500 ed il 1000 a.C. ma in aiuto dell’archeologo vengono i Veda, i Libri della conoscenza della religione aria che vennero tramandati oralmente dai cantastorie e poi per iscritto fino a che non vennero redatti definitivamente attorno al 600 a.C. Il più antico di questi testi è il Rig-Veda (lett.: Veda degli inni), mille e cinquecento inni in sanscrito, la più antica letteratura indoeuropea, nel quale si supplicano doni dagli dei arii.
Dai Veda sappiamo che gli Arii vivevano con le loro greggi migranti in villaggi tribali. Le case, costruite con bambù o legno leggero non sono sopravvissute al tempo, gli Arii non usavano mattoni, né di fango, né cotti, e non avevano quell’organizzazione cittadina caratteristica delle popolazioni prearie. Riuscirono veramente a sopraffare gli abitanti delle città o fu una lenta assimilazione? Certamente erano più forti fisicamente, induriti dalla vita nomade, capaci di superare a piedi nudi i valichi di montagna, avvantaggiati dall’uso del carro e dei metalli come il bronzo con il quale forgiavano asce. I Veda parlano delle loro vittorie sulle «città fortificate» (pur) dal cui interno la gente di «pelle scura» (dasa), cerca invano di difendersi dagli Arii dalla pelle «color del grano».
Il termine arya significava all’origine nobile o avente alta nascita, mentre la gente comune era indicata come vis ed era suddivisa in tribù jana. Le tribù, unite nell’assalto alle città, erano spesso in guerra fra loro e venivano governate da rajà. Le lotte fra rajà cugini della tribù più famosa, quella dei Bharata, sono al centro del poema epico Mahabharata (Grande poema dei Bharata) scritto in epoca successiva. Come ogni tribù era governata da un rajà di sesso maschile, così anche la famiglia veniva controllata dal padre, il cui ruolo di dominio su moglie e figli sarebbe diventato il modello normale dei rapporti di parentela di ogni famiglia indiana, dove la supremazia dell’uomo sulla donna e la gerarchia basata sull’anzianità sarebbero rimaste la regola.
Il territorio abitato dagli Arii, al momento della stesura del Rig-veda, era conosciuto come Saptasindhava (terra dei sette fiumi), ne facevano parte i cinque fiumi dell’attuale Punjab e l’Indo che allora riceveva anche un altro affluente, la Sarasvati, oggi ridotto ad un torrente nel deserto del Rajastan. Sembra che gli Arii pare non conoscessero il Gange. Impiegarono ben cinque secoli ad occupare i territori fra il passo Kyber e la piana di Delhi. Il processo di lotta, cooperazione ed assimilazione fra genti arie e prearie determinò i caratteri fondamentali di quella che sarebbe stata la cultura di tutto il subcontinente. La società aria si modificò: i villaggi si ingrandirono, la struttura tribale divenne più complessa, nacquero le prime forme di istituzioni politiche, si passò a strutture stanziali con agricoltura.
Più di mille anni furono necessari per compiere il processo d’assimilazione e di mutamento storico. In questo periodo il centro del potere nel settentrione del subcontinente era slittato verso oriente, fino alla regione dell’odierna Patna. Questo processo di disboscamento di enormi foreste riuscì grazie soprattutto alle nuove tecnologie portate dagli Arii che permisero la costruzione di grossi e pesanti aratri, trainati da buoi e con il puntale di ferro. La metallurgia del ferro giunse dall’altipiano iranico dove le popolazioni indeuropeo ne avevano sviluppato le tecniche di lavorazione. I testi religiosi sono le uniche fonti della storia di questo periodo: ai Veda si accompagnano i Brahamana, commentari, e le Upanishad, testi scientifici, ed inoltre il Mahabarata con il Ramayana.
La civiltà era in marcia, agli inizi del 6° secolo a.C. vi erano sedici reami maggiori, più o meno forti, ed oligarchie tribali nell’India settentrionale, dal Khabhoja in Afghanistan fino all’Anga in Bengala. In questi regni la crescita di grandi centri e città, lo sviluppo di comunicazioni e vie commerciali nell’India settentrionale, come pure la fondazione di nuove scuole di filosofia religiosa non ortodossa, costituirono il risultato dell’impatto della tarda arianizzazione sulle tribù e sulle abitudini indigene delle pianure fra l’Indo ed il Gange. Il tempo e la distanza non solo indebolirono la resistente fibra originaria degli Arii ma ne trasformarono il modello socio-economico di insediamento culturale. Il brahamanesimo si era saldamente radicato sulle credenze popolari, i villaggi di tronchi erano stati sostituiti da potenti città circondate da mura, simili ai grandi insediamenti urbani della civiltà dell’Indo. In una di queste potenti mahajanapada (grandi regioni tribali), nacque nel 540 a.C. Buddha Sakyamuni ed i frutti della sua predicazione segnarono alcuni caratteri dei grandi imperi che stavano per sorgere.
Nel 4° secolo a.C. le tribù ed i bellicosi reami dell’India settentrionale vennero unificati in un unico e potente impero assai più grande di quanto che potesse esser stato quello di Harappa. Ma prima che ciò si compisse una meteora doveva passare sulle pianure dell’Indo. Alessandro Magno, frantumato il potere persiano, nel 326 a.C.superò il fiume Indo ed il Jhelum (Hydaspes). Quando Alessandro raggiunse il quinto grande fiume, il Beas (Hyphasis), gli arrivò certamente notizia delle grandi ricchezze del lontano regno di Magadha e sicuramente progettò di avventurarsi verso il «mare orientale», che probabilment era il Gange. Alessandro lasciò alle sue spalle diverse migliaia di coloni che però finirono per disperdersi. Proprio quando la marea del potere macedone si ritirò, si elevò ad occidente il primo grande impero del’India settentrionale.
Il monarca che riuscì nell’impresa di unificazione fu Chandragupta Maurya (dal pali: motia=pavone), che regnò dal 324 al 301 a.C.. Il giovane sovrano era guidato dal brahamano Kautilya che descrisse i metodi del buon governo nell’Arthasastra (lett.: scienza del guadagno materiale), un testo che ricorda la politica del Principe di Machiavelli e le cui regole furono spesso applicate da sovrani ed imperatori dei successivi due millenni. Chandragupta consolidò l’impero raggiungendo le zone ad ovest dell’Indo e fissò i confini all’Hindu Kush in un trattato con Seleuco Nicatore, sovrano greco erede di Alessandro in Asia. In cambio di cinquecento elefanti da guerra Seleuco ritirò le ultime truppe greche dal Punjab. Bindusara, successore di Chandragupta è ricordato per la strana richiesta che inviò ad Antioco I, successore di Seleuco: vino greco, fichi e... un sofista. Antioco mandò vino e fichi ma gentilmente spiegò che da loro non c’era mercato di sofisti.
Con Ashoka (senza dolore, 269-232 a.C.) l’impero raggiunge il suo apogeo. I suoi editti furono scolpiti su rocce e pilastri lungo tutti i confini dell’immenso impero. Grazie ad essi conosciamo su Ashoka molto più che su tutti gli altri imperatori. Un’amministrazione accurata, ministri ed ispettori efficienti ed ottime vie di comunicazione raggiunsero i confini fino oltre le piane dell’Indo. La religione buddhista influenzò tutto il suo operato (suo stemma erano i leoni sormontati dalla ruota della legge, simboli della supremazia della legge divina sul potere temporale). Protettore del Buddhismo si dice che abbia fatto erigere più di ottantamila stupa in tutta l’India.
Nei cinque secoli che seguirono alla caduta dell’ultimo Maurya (circa 184 a.C.) le regioni occidentali subirono l’influenza di imperi posti ad occidente. Nel 250 a.C. la regione nord-occidentale della Bactriana aveva dichiarato la sua indipendenza dai Seleucidi e nel 190 a.C. invasori greco-bactriani conquistarono Peshawar. In una decina di anni estesero la loro supremazia all’intero Punjab. Questi eredi di Alessandro coniarono stupende monete raffiguranti Ercole, Giove, Apollo. Le forze greche si spinsero fino all’attuale Patna che controllarono per circa dieci anni.
La classica e caratteristica arte buddhista, che prese il nome dalla regione, rappresenta la più durevole eredità del processo di sincretismo indo-greco della civiltà di Gandhara, dove molte altre correnti di pensiero indiano ed occidentale confluirono al seguito dei notevoli traffici commerciali.
Agli inizi della nostra era i Kushana, la più forte tribù degli Yueh-chih, giunsero nel Gandhara. Sotto il re kushanide Kaniska I, il vittorioso, l’impero si estende dall’Asia centrale al golfo del Bengala. Con la sua conversione il Gandhara comincia ad essere considerato una sorta di terra santa del Buddhismo e si definiscono i lineamenti ed i caratteri peculiari dell’arte gandharica. A questo speldore seguì il periodo, forse meno interessante degli Hindu Shai, i re indiani.
La nascita dell’Islam, avvenuta fra le sabbie dell’Arabia saudita nel 622, era destinata a cambiare radicalmente il corso della storia del subcontinente. Nessuna delle molteplici invasioni che fecero seguito alla diffusione degli Arii più di duemila anni prima, incise così profondamente sull’Asia meridionale quanto quelle che portarono in India la religione del profeta Muhammad. L’eredità storica di quello scontro si coglie fra i settanta milioni di Musulmani nei vari stati dell’Unione Indiana.
L’India rimase beatamente ignara dell’esistenza dell’Islam nei primi due decenni della vigorosa crescita della nuova fede. I mercanti arabi portavano comunque dall’Asia meridionale ricchezze sufficienti a stimolare gli appetiti dei guerrieri musulmani, ma una prima spedizione del 644 riportò al Califfo informazioni e valutazioni pessimistiche. Un attacco piratesco ad una nave da carico musulmana nel 711 infuriò a tal punto il governatore ommayade dell’Iraq da armare, contro i rajà del Sind, una spedizione forte di seimila cavalli siriani ed altrettanti cammelli iracheni. Mohammed Bin Qasim, governatore di Bassora, aveva allora diciannove anni, e si rivelò un ottimo condottiero. Successivamente agli Hindù, venne concesso la condizione di dhimmi, cioè di stato protetto. Questa condizioni era già stata estesa in Iran agli Zoarastriani (i Parsi) ed ora il tributo venne pagato anche dai popoli del Sind che volevano conservare la propria fede. Dalla regione dell’attuale Pakistan, l’Islam si mosse lentamente verso oriente, fino a raggiungere le lontane isole degli arcipelaghi fra Oceano Indiano e Pacifico.
Nel 10° secolo l’Islam si era modificato: un unico Califfo non riusciva più a controllare gli immensi territori, molti schiavi turchi (mamelucchi, mamluk) erano divenuti liberi ed avevano raggiunto i vertici politici e militari. Il primo regno islamico turco fu fondato nella fortezza afghana di Ghazni e la dinastia durò due secoli. Dal 997 Mahmud di Ghazni (971-1030) guidò quasi una ventina di incursioni in terra indiana promovendo jihad (guerre sante) con la promessa di un paradiso (ed anche di un ricco bottino...). Lasciata la fortezza in Afghanistan Mahmud scendeva in Punjab e poi in India distruggendo templi e saccheggiando città.
Centocinquantanni dopo la morte di Mahmud, la stessa Ghazni venne conquistata dai turchi Ghuridi, un’altra feroce popolazione nomade dell’Asia centrale. Il sultano Muhamad di Ghur e lo schiavo luogotenente Qutb-ad-Din Aibak compirono la prima razzia nel 1175, distruggendo il presidio ghaznavide di Peshawar nel 1179 e proseguendo alla conquista di Lahore nel 1186 e di Delhi nel 1193. Qutb-al-Din si autoproclamò sultano di Delhi nel 1206 e fondò la dinastia amluk, (schiava). L’India si trasformò da Dar-al-Harb (casa della guerra) in Dar-al-Islam (casa della sottomissione). Il sultanato di Delhi durò trecentoventi anni sotto il governo di cinque successive dinastie turco-afgane e fu definitivamente abbattuto dall’invasione delle armate asiatiche di Timur-i-Leng (Tamerlano, Timor lo zoppo) nel 1398.
Babur, re di Kabul (1483-1530) si impadronì di Delhi nel 1526 fondando la dinastia Mogul. Humayun, Akbar (lett.: il grande), Jeangjir (lett.: conquistatore del mondo), Shaha Jahan, Aurangzeb, sono nomi eternati nei monumenti da loro eretti (vedi scheda: Lo splendore Moghul a pag.: 000>).
Dopo la morte di Aurangzeb, l’impero iniziò un rapido declino. Sebbene i Moghul conservassero nominalmente il controllo di parte dell’India fino alla metà del 19° secolo, i vari imperatori non riacquistarono mai la dignità e l’autorità di un tempo ed il loro declino consentì lo sviluppo di nuovi influssi sul subcontinente.
Nel 1739 Nadir Shah riuscì a saccheggiare Delhi impossessandosi del «trono del pavone» che divenne vanto degli shah di Persia. Altra invasione avvenne nel 1756 da parte del re afghano di Kabul, Ahmed Shah Abdali. Nella seconda metà del 18° secolo, i Sikh divennero una considerevole potenza nel Punjab da dove cercarono di controllare anche le regioni del Sind fino al confine afghano.
All’inizio dell’800 la Compagnia britannica dell’Asia orientale era saldamente installata sulle coste indiane con centro a Calcutta. Approfittando delle difficoltà francesi durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, essa aveva eliminato quella pericolosa concorrente. La Compagnia realizzava ottimi affari controllando il commercio di esportazione delle preziose merci indiane ma l’immenso subcontinente promette molto di più. L’India era frammentata in una pluralità di stati formalmente sottomessi all’impero del gran Moghul ma di fatto indipendenti. Economicamente ricchi, essi erano debolissimi sul piano militare e politico, lottavano per il loro controllo dinastie di principi musulmani ed hindu, vi regnava la corruzione, continue invasioni di popolazioni bellicose provenienti dalle frontiere dell’Afghanistan, della Birmania, del Tibet, vi spargevano il terrore ed il disordine.
Di fronte a questa situazione la Compagnia decise di cambiare la sua politica, fino ad allora esclusivamente commerciale: oltre a sviluppare il commercio di importazione verso l’India si potevano sfruttare le ricchezze di quell’immenso paese, sia mettendo tutta la sua attività economica al servizio degli interessi della Compagnia stessa, sia raccogliendo direttamente tasse e tributi. Un’impresa gigantesca: conquistare un paese di più di cento milioni di abitanti.
In pochi decenni tutto il paese cadde così sotto il controllo diretto od indiretto degli amministratori inglesi che gli fecero subire profonde trasformazioni, in certi casi catastrofiche. Poiché l’industria tessile inglese aveva bisogno di cotone e di juta, si crearono enormi piantagioni di queste piante al posto della tradizionale agricoltura di piante alimentari che aveva permesso nei secoli la sopravvivenza dei villaggi indiani, ne seguirono tremende carestie che causarono in pochi anni la morte per fame di milioni di contadini. Per agevolare l’importazione dei prodotti tessili dall’Inghilterra venne distrutto il tradizionale artigianato indiano che aveva assicurato la prosperità di intere regioni. Furono spediti in Inghilterra milioni di sterline in metalli e pietre preziose, ottenuti saccheggiando i tesori delle corti principesche ed imponendo pesanti tasse alle popolazioni sottomesse.
Nel 1857 scoppiò la grande rivolta promossa inizialmente dai sepoy, le truppe indiane al servizio della Compagnia. La rivolta ebbe motivazioni religiose: le cartucce per i fucili che gli Inglesi distribuivano erano unte con grasso di vacca e il grasso per le canne era di maiale, suscitando in tal modo lo sdegno sia di Hindù che di Musulmani. Si intendeva così protestare contro la violazione delle tradizioni locali operata sistematicamente dai conquistatori. Ai sepoy si unirono presto masse esasperate di contadini ed artigiani ridotti in miseria, la rivolta fu repressa dopo un anno di duri combattimenti, massacri ed atroci rappresaglie, e richiese l’intervento di ingenti forze inglesi. Essa segnò comunque la fine del dominio della Compagnia: nel 1858 l’India passò sotto l’amministrazione diretta del governo inglese e fu governata da un viceré che rispondeva direttamente al governo di Londra.
È in questo secolo che iniziò ad estendersi l’influenza degli Inglesi, dapprima in maniera strisciante, ma ben presto l’opera della Compagnia delle Indie portò ad un controllo totale su quasi tutti i regni fra l’Himalàya e Ceylon. Lo sfruttamento da parte della Compagnia e la rivolta del 1857, indussero il governo di Londra ad assumere direttamente il controllo dell’India come colonia. Non cessò per questo lo sfruttamento dell’India, tuttavia esso fu condotto in modo più razionale e si tentò di compensare il peso fatto gravare sulle masse indiane con alcuni vantaggi propri della civiltà europea. Si creò un’efficiente amministrazione accettando nei livelli inferiori della burocrazia anche personale indiano, che venne istruito in scuole inglesi per farne un valido alleato del regime coloniale, si costruirono grandi ferrovie e le prime industrie, si pose fine alle invasioni ed ai disordini che avevano a lungo devastato il paese. Il governo inglese si presentava quindi agli Indiani come garante dell’ordine e della pace interna, come promotore dello sviluppo economico e culturale. Grazie a tutto questo l’India restò per quasi cento anni un suddito fedele, oltre che la colonia più ricca dell’Inghilterra.
La guerra del 1857 segnò l’inizio della lotta per l’Indipendenza. Il sub-continente era ormai in subbuglio, non si trattava più di sporadici episodi locali o della solita resistenza delle tribù delle province di frontiera. Sotto la guida di intellettuali, ricchi commercianti e nobili, i giovani indiani si stavano organizzando per liberare la «Grande Madre» dal giogo Inglese.
Le spinte indipendentistiche si coagularono nel Congresso Nazionale Indiano (1885) dove la componente indù era chiaramente in maggioranza. Il tentativo Inglese di indebolire il movimento nazionale portò ad un primo tentativo di boicottaggio delle merci inglesi in tutto il territorio. Per questo, nel 1905, venne fondata la Lega Musulmana di tutta l’India, un’organizzazione a carattere politico intesa a sostenere e portare avanti i punti di vista musulmani, e questo indebolì il movimento di indipendenza. Appianare le differenze fra Congresso e Lega Musulmana, fu uno dei compiti che si assunse il Mahatma Ghandi, il quale prefigurava un’unica India dove Musulmani, Hindu, Sikh, vivessero assieme liberi dagli Inglesi ma anche liberi dal bisogno. Mohandas Kaaaramchand Ghandi tornò dal Sud Africa nel 1915 e con lui la lotta entrò in una nuova fase. Il 26 gennaio 1930, presidente il giovane Jawahaarlal Nerhu, il Congresso dichiarò l’appoggio al dominio britannico «un crimine contro Dio e contro l’uomo» (la frase riecheggia la definizione di Gladstone sul regno di Napoli: «La negazione in terra ...»). Nello stesso anno Gandhi lanciò un secondo movimento di disobbedienza civile, rafforzato dall’attrazione esercitata dalla sua marcia del sale: una protesta contro il monopolio inglese sulla produzione del sale, che toccava ogni famiglia indiana. Dopo la Conferenza della Tavola rotonda di Londra ed altri episodi di disobbedienza civile, nel 1935 venne approvato il Goverment of India Act che dava il diritto di voto per eleggere i propri rappresentanti a circa il 14% degli Indiani. L’agitazione continuò anche durante la guerra e raggiunse il culmine nel 1942, quando il Congresso chiede che gli Inglesi lasciassero l’India al termine del conflitto. La Lega Musulmana chiedeva intanto la formazione di uno stato separato ed indipendente. Nel dopoguerra il governo laburista di Attlee mise n discussione la convinzione di Churchill sulla necessità di conservare il dominion sull’India. Congresso e Lega ebbero contatti ed esercitarono pressioni sul governo britannico e sul viceré lord Mountbatten.
D’altro canto, su come dividere l’India in modo ottimale, c’erano almeno sei proposte. Ma la situazione precipitò e lord Mountbatten fu costretto a concedere l’indipendenza un anno prima di quanto fosse stato previsto e senza neppure avere il tempo di compiere progressivamente la spartizione sotto il controllo delle truppe inglesi. A mezzanotte del 14 agosto 1947 avvenne il passaggio formale del potere a Nerhu in India ed a Jinnah in Pakistan. Il 30 gennaio 1948 Gandhi muore assassinato da un fanatico hindu.
La Costituzione entra in vigore il 26 gennaio 50 (trent’anni dopo la dichiarazione del Congresso). Essa prevede una democrazia con un Presidente, capo di stato, ed un primo ministro, potentissimo capo del governo. Il parlamento bicamerale è eletto a suffragio universale: Lok Sabha (Camera del popolo, 544 membri) e Rajya Sabha (Camera degli Stati, 244 membri). L’Unione Indiana, repubblica federale, assorbì tutti i precedenti principati, ed è oggi suddivisa in 27 stati, 7 Territori ed Aree Speciali. La popolazione, di 300 milioni nel 47, ha raggiunto il miliardo nel 2000 (il 40% dei quali sotto i 15 anni). Il tasso d’analfabetismo si aggira oggi sul 65%.
Il compito di Nerhu e della nuova classe dirigente è enorme ma la buona volontà anima tutti: amministratori, funzionari e cittadini. La scelta del Congresso è quella di costruire uno stato di modello socialista, con un fortissimo controllo da parte del Governo Federale. Si cerca di avviare la riforma agraria mentre l’industria, in mano al Governo e ad alcune grandi famiglie di industriali, si sviluppa senza interventi di capitali stranieri in un regime protezionista. Anche se formalmente Gandhi rimane il padre della patria, i suoi principi vengono pian piano abbandonati, e Nerhu punta ad uno sviluppo industriale massiccio cercando di recuperare i quasi duecento anni di colonialismo inglese che avevano impedito la formazione e la crescita di un apparato produttivo indiano. In campo internazionale l’India è fra i promotori della conferenza di Bandung e diverrà il più importante degli stati non allineati.
Due anni dopo la morte di Nerhu, nel 1964, divenne primo ministro sua figlia Indira Gandhi (nessuna parentela con il Mahatma). Quando il Partito del Congresso si divise, nel 1969, ella divenne capo del Congresso-I. Rimase al potere sino a che i suoi metodi autoritari portarono all’«emergenza» del 1975 ed alla sua destituzione nel 1977. Ritornò al potere nel 1980. La saga dei Gandhi è troppo recente per formulare un giudizio obiettivo, ma occorre sempre tener presente la complessità della cultura India, l’estensione del territorio ed il costante aumento della popolazione che ne fanno un impero difficilissimo da governare). Nel 1984 fu giustiziata dalle guardie del corpo sikh[1]. Venne immediatamente eletto Primo Ministro il figlio Rajiv Gandhi e nelle successive elezioni generali il popolo lo riconfermò a schiacciante maggioranza.
Scomparsa Indira Gandhi, governante dal pugno di ferro che aveva cercato in tutti i modi di soffocare ogni spinta autonomista e particolarista, sembrano esplodere in India tutte le contraddizioni fino allora ben controllare dalla politica accentratrice del Governo Federale. Anche Rajiv Gandhi muore assassinato nel 1991 nel corso di una campagna elettorale.
L’Unione Indiana inizia il 2000 con una serie di problemi all’apparenza irrisolvibili, anche perché non è finora emerso un leader politico che sappia coagulare attorno a sé le varie forze politiche[2]. Il Congresso ha perso la sua forza e non riesce da solo ad esprimere una maggioranza; gli altri partiti laici non sono così forti da porsi come governo di alternativa; l’integralismo hindu risorge in formazioni come il Shiv Senaa cui fanno da contraltare i fondamentalisti islamici. Da anni orami l’India è governata da formazioni politiche conservatrici e spesso razziste. Il caso della moschea di Adyoda, i disordini e i massacri ad essa seguiti, la perdita di controllo da parte della polizia su città grandi come Bombay, mostrano una incapacità del governo a gestire questi problemi. Ed inoltre: conflitti razziali fra le caste e vertenze fra stato e stato per il controllo dei grandi canali di irrigazione; guerra civile in Kashmir, Punjab ed Assam.
I conflitti sociali rimangono irrisolti e sicuramente aumenteranno con l’industrializzazione e con la nuova fase di privatizzazioni che vede la fine del protezionismo ed un cauto aprirsi verso il libero mercato dopo 50 anni di assoluto monopolio dello stato e dei grandi industriali.[1] Forse volevano vendicare la profanazione del Tempio d’oro di Amritsar dove le truppe erano entrate, se pur a piedi nudi, ed ingaggiato un furioso scontro a fuoco.
[2] Per conoscere l’India vista con gli occhi degli Indiani è fondamentale leggere Naipul, India, un milione di rivolte, e con un po’ di pazienza confrontare la sua ricerca del 1988 con il viaggio del 1964 descritto in An area of darknes.