In questo numero:
- Premio Scrittrici del Ladakh, prima edizione
- Letterine sul fiume di ghiaccio
Contributo extra:
- Una voce fuori dal coro? Recensione a "Tibet mito e realtà"
PREMIO SCRITTRICI DEL LADAKH, PRIMA EDIZIONE
Delhi, 7 dicembre - 500 euro possono sembrare pochissima cosa, ma
rapportati al Ladakh equivalgono a sei mesi di stipendio, un buon
aiuto ed un incoraggiamento per le tre vincitrici della prima
edizione del Sanjoy Ghose Ladakh Women Writers’ Award. Dedicato a
Sanjoy Ghose, attivista per i diritti sociali, la Sanjoy Ghose Media
Fellowship è una borsa di studio istituita per facilitare il lavoro
dei giornalisti nelle aree remote dell'India, da quest'anno è
affiancato da un premio espressamente dedicato alle donne del Ladakh.
La prima edizione ha visto vincitrici Rinchen Dolma reporter e
presentatrice di Radio Leh, Thinlas Chorol social worker, insegnante
e scrittrice freelance, e Zainab Akhter freelance per i media in
lingua urdu del J&K.
LETTERINE SUL FIUME DI GHIACCIO
Non sono le "letterine" televisive, ma lettere dall'Italia, dalla
Francia, dall'Europa, ad allieve ed allievi della Lamdon Model High
School scritte da chi li sostiene agli studi.
Postini il fotografo Bruno Zanzottera, Antonio Vizzardi (CAI
Bergamo), le guide Sonam Stobgays e Targay Ajang, Marco Vasta (CAI
Brescia). Sono previsti incontri di lavoro con gli staff dei TCV di
Choglamsar e di Sumdho e della Lamdon Model School. Nell'era di
Internet la posta tradizionale viaggia ancora a piedi sul fiume,
mentre via cellulare da Padum, amici premurosi informano che le
abbondanti nevicate ci obbligheranno a camminare fino al monastero
femminile di Zangla.
Tradizione e tecnologia high tech sulla via della "carovana del
burro", con un po' di rimpianto a quando le comunicazioni erano
impossibili e chi scrive era stato dato per disperso nelle gole
dello Zanskar.
Se ne parlerà il 18 marzo a Brescia al Museo di Scienze
http://www.aazanskar.org/cs/news/AZnews.asp?id=1202
(riceviamo e pubblichiamo)
UNA VOCE FUORI DAL CORO?
RECENSIONE A "TIBET MITO E STORIA"
contributo della dott.ssa Chiara Bellini
Sono rari i titoli disponibili, in lingua italiana, sulla storia
tibetana e le sue vicende politiche e religiose. Da tempo, infatti,
gli studi sull’Asia Centrale sono scritti in lingua inglese, per
consentirne la diffusione, soprattutto negli ambiti accademici, a
livello internazionale. Approfondire argomenti di carattere storico,
letterario, linguistico, artistico, in ambito tibetano, può
risultare difficile per chi non abbia determinate competenze
linguistiche. Tra i pochi titoli di valore scientifico, disponibili
in lingua italiana, di carattere storico-culturale, si annoverano le
opere di Giuseppe Tucci, Rolf Stein, e David Snellgrove, sebbene la
sua opera capitale, The Cultural History of Tibet, scritta insieme a
Hugh Richardson, sia stata tradotta in italiano disastrosamente
dalla casa editrice Luni, con il risultato di un testo
inutilizzabile in ambito accademico, che non rende giustizia
all’originale e soprattutto al talento dei due autori (vedi
"Tradurre
o tradire? Recensione critica di Erberto Lo Bue" - News letter N° 21 - Dicembre 2005).
Ecco, ora, affacciarsi sul panorama degli scritti tibetologici in
lingua italiana, Tibet Mito e Storia, dell’“orientalista” – come
viene presentato dalla casa editrice Stampa Alternativa – Pietro
Angelini. Il rammarico, tuttavia, è immediato nel constatare che
nella bibliografia è assente proprio il libro di Snellgrove e
Richardson, un riferimento imprescindibile per gli studi storici e
culturali del Tibet. La ‘svista’ viene maggiormente evidenziata
proprio da quanto affermato nella presentazione sul retro del
volume, “sorretto da un’impressionante documentazione”. Il libro, in
realtà, impressiona più per la sua incompletezza e per alcune scelte
discutibili piuttosto che per la sua consistenza. Nessuno dei tanti
libri scritti da Snellgrove viene citato in bibliografia, eppure, il
suo nome compare a pagina 34 del libro, in cui Angelini, aprendo le
virgolette, cita il tibetologo inglese senza, tuttavia, fornire
alcun riferimento bibliografico. Del resto, nessuna indicazione
precisa, riguardante le fonti o i fautori delle idee e teorie
espresse nel libro è fornita nel volume. Nelle sue 353 pagine non
compare alcuna nota. Si tratta, a mio avviso, di una scelta
editoriale di discutibile onestà intellettuale, trattandosi, per di
più, di un saggio storico. Il volume, anche in virtù di tali scelte
metodologiche, non è adottabile come testo universitario ed è
comunque insufficiente anche per essere letto da un pubblico di non
esperti. Sono numerosi gli errori all’interno del libro che
confondono il lettore e lo depistano, riscontrabili prevalentemente
nelle parti riguardanti l’ambito culturale, religioso e filosofico.
Le inesattezze più evidenti sono attribuibili al fatto che l’autore
non è a conoscenza, evidentemente, di nessuna lingua orientale,
limite che rende impossibile l’accesso alle fonti storiche in
sanscrito o tibetano. Ci si aspetterebbe, infatti, che un
“orientalista” conosca almeno una lingua orientale, competenza che
ne determina la definizione stessa, peraltro ormai desueta e
lievemente eurocentrica. Elaborare un’analisi storica senza avere
accesso diretto alle fonti significa assemblare studi elaborati da
altri, utilizzando un criterio personale e non sempre obbiettivo,
con risultati spesso mediocri e di scarso valore scientifico.
I fraintendimenti e gli errori più evidenti, dovuti non soltanto
all’impossibilità di consultare le fonti ma anche ad una difficoltà
di destreggiarsi con gli strumenti disponibili (vengono citati in
bibliografia autori senza alcuna competenza tibetologica mentre
vengono ignorati autori come Snellgrove) sono, come già detto,
prevalentemente legati alla sfera storico-religiosa e culturale.
L’autore, ad esempio, utilizza il termine pundit (pp.86, 88, ecc.)
per trascrivere foneticamente il sanscrito pandita, termine che
designava i dotti indiani. Angelini utilizza una trascrizione
fonetica inesatta e fuorviante visto che il termine sanscrito si
legge esattamente come è scritto, mentre la sua trascrizione deriva
dalla pronuncia inglese, che con pundit vuole indicare la pronuncia
di pandit. Questo dimostra che l’autore ignora completamente la
traslitterazione esatta di un termine assai comune e ricorrente in
ambito storico-religioso indiano e tibetano. Traduce inoltre, a
pagina 355 del glossario, il termine sanscrito guru e il suo
corrispettivo tibetano lama (bla ma) con “amico spirituale,
onorifico per i monaci di alto livello spirituale” anziché
semplicemente ‘maestro’. L’appellativo lama viene usato anche per
indicare i maestri di pittura, che certamente non sono degli ‘amici
spirituali’. E inoltre assurdo pensare che il termine ne denoti il
“livello spirituale”: basta compiere un viaggio in qualsiasi parte
dell’Asia himalayana per rendersi conto che tutti i monaci, e
sovente i maestri d’arte, vengono chiamati bla ma.
L’autore spesso fraintende informazioni trovate in alcuni degli
studi da lui consultati. Ad esempio definisce (p.92) il maestro
tibetano Marpa il “fondatore e capo spirituale della scuola kagyud”.
Il maestro laico Marpa, cui fu discepolo Milarepa, viene
riconosciuto dalla scuola ‘Kagyu’ (tib. bKa’ brgyud pa), e non
kagyud, come uno dei maestri principali del proprio lignaggio in
maniera retroattiva, poiché il primo monastero ‘Kagyupa’, quello di
Dvags lha sgam po, viene fondato dal discepolo principale di
Milarepa, Gampopa (1079-1153), parecchi anni dopo la morte di Marpa.
Il primo monastero Kagyu a ricoprire una certa importanza, quando
l’ordine si fu costituito, fu quello di gDan sa mthil, fondato dal
discepolo di Gampopa Phag mo gru (1110-70) (Snellgrove e Richardson
1995: 135).
A pagina 8, Angelini definisce il Dalai Lama, apparentemente in modo
ironico e del tutto fuori contesto, “Re dei re”. L’autore sostiene
che la ruota d’oro che strinse in mano il capo spirituale e
temporale del Tibet salendo sul suo trono fosse un “simbolo di
onnipotenza”, mentre in realtà la Ruota o dharmacakra, simboleggia
la ruota della legge, messa in movimento per la prima volta dal
Buddha storico Sakyamuni durante il suo primo sermone nel ‘parco
delle gazzelle’ di Sarnath.
All’inizio del paragrafo Il buddhismo tibetano (p.9), Angelini
esordisce in questo modo: “Al tempo della sua prima diffusione in
Tibet, il buddhismo delle origini – detto Hinayana o piccolo veicolo
– era praticamente scomparso dall’India”. L’autore utilizza una
distinzione tra piccolo e grande veicolo senza precisare che fu
coniata dai praticanti della seconda tradizione in tono
dispregiativo rispetto alla tradizione più antica. Lo stesso Dalai
Lama, oggi, rifiuta questo tipo di distinzione fuorviante e non
pertinente alla realtà storica e spirituale.
Alcuni passaggi sono incomprensibili e puramente frutto della
fantasia dell’autore, che scrive: “i suoi discendenti costruirono
una tomba regale in stile bon nello Yarlung” (p.49), inventando
l’esistenza di uno “stile” del quale non ne chiarisce nemmeno
l’ambito, se artistico, o architettonico, ecc. Ovviamente uno stile
di questo tipo è del tutto inesistente.
Angelini, in più di un passaggio (p.69), confonde lo rDzogs chen –
letteralmente ‘Grande Perfezione’ e non “Quelli della Completa
Realizzazione” – con la tradizione giapponese dello Zen, e la sua
corrispettiva cinese C’an, la quale presenta solo alcune affinità
con la tradizione tibetana ma che certamente non può esservi
identificata. A pagina 93 afferma che “Alcune caratteristiche dello
dzochen sembrano provenire dalle più pure tecniche dei mahasiddha
indiani e in seguito essere confluite nel buddhismo Zen”.
Utilizza spesso, per indicare la condizione di monaco, la parola
“prete” (p.35, 87), termine inadatto a definire l’assunzione del
voto di celibato in ambito tibetano, del resto improprio anche in
ambito occidentale qualora si voglia indicare colui che sceglie di
vivere la propria vocazione in ambito comunitario.
Fuorviante è anche la descrizione del traduttore tibetano Rin chen
bzang po (958-1055), definito un “giovane mistico” (88) cosa che,
casomai, diventerà in seguito. Dal modo in cui vengono descritte le
vicende relative alla sua missione e alla sua opera di divulgazione
si ha l’impressione che Rin chen bzang po abbia compiuto i suoi
viaggi e studi seguendo una personale ispirazione. Non viene
specificato, invece, che il monaco fu inviato in Kashmir, insieme ad
altri govani, su incarico dei sovrani del Tibet Occidentale, per
copiare, tradurre e interpretare, con l’aiuto di maestri indiani, i
testi sacri del buddhismo e le pratiche liturgiche e ritali.
Certamente egli seppe distinguersi e contribuì fortemente, con il
suo lavoro di traduzione e con l’esperienza vissuta al fianco di
importanti maestri (viaggiò in India tre volte rimanendovi per un
totale di diciassette anni), alla rinascita spirituale del buddhismo
nel Tibet Occidentale.
Si riscontrano errori anche nella parte dedicata ad Atisa Dipankara
Srijnana, maestro bengalese vissuto nell’XI secolo. L’autore,
descrivendo il celebre dotto indiano, sostiene che “Atisa, il cui
nome indiano era Dipankara, era un maestro del buddhismo mahayana
del monastero indiano di Vikramasila” (p.88), ritenendo forse,
erroneamente, che il nome di Atisa sia tibetano e non indiano a sua
volta e definendo “monastero” l’importante università monastica di
Vikramasila, le cui rovine imponenti, ancora oggi, testimoniano la
grandezza di questo centro di cultura, in cui venivano insegnate
discipline come scienza, astrologia, teologia, e dove giovani
provenienti da ogni parte dell’Asia si recavano per potervi
studiare. “La cultura buddhista di Atisa”, secondo la lettura di
Angelini, “era vastissima” (p.88), ma ciò che furono veramente vaste
erano le sue conoscenze dottrinali e filosofiche. Egli era, infatti,
un dotto buddhista e non uno studioso del buddhismo.
Angelini chiama inoltre, erroneamente, “Drom Tonkpa” (p.88) il
discepolo che fu uno tra i più importati di Atisa, ‘Brom ston, la
cui trascrizione fonetica dovrebbe essere Drömtön. Riportare in
maniera errata e personalistica nomi e toponimi può risultare
fuorviante per il lettore e limitante per eventuali approfondimenti.
All’interno del libro ci sono frasi poco chiare riguardanti l’ambito
dottrinale e religioso, come ad esempio: “Va detto che
tradizionalmente tra le scuole buddhiste non vi è alcuna differenza
nel loro stadio finale, perché insegnamenti diversi si riscontrano
solo nella Via” (p.89). Ancora, dopo aver definito la via dei tantra
una “scorciatoia verso l’illuminazione” dice “Ma è anche vero che
come ogni scorciatoia, è anche la più pericolosa, in quanto la
libertà d’azione può portare il praticante poco sorvegliato verso i
fondali bassi dell’io e affogare in quei veleni che si vogliono
trasmutare, nevrotiche quanto effimere consistenze dell’io capaci di
spedire l’adepto nell’inferno di debiti karmici di più gravosa
entità” (p.90). La frase non è formalmente chiara e soprattutto non
lo è il concetto che l’autore vuole esprimere. In nessun testo viene
detto che la via dei tantra sia la più pericolosa. La libertà
d’azione si trova in tutte le tradizioni del buddhismo, che insiste
molto sulla comprensione intellettuale e non solo su un cieco
atteggiamento fideistico. Inoltre, è proprio in questa via, dove
viene data grande importanza al ruolo del maestro e allo stretto
legame tra lui e il discepolo, che l’adepto non viene mai lasciato
solo. Anche il concetto di “inferno dei debiti karmici” appare in
contrasto con la tradizione buddhista e più vicino a quella
cristiana occidentale.
Un'altra frase fuorviante è la seguente: “E anche fuori dalle
università, presso gli asceti o negli ashram himalayani, dove forse
le pratiche erano meno rituali e più effettivamente sperimentali,
vigeva una profonda differenza nella trasmissione secondo una
distinzione di condotte basate sul livello di preparazione e persino
di santità” (p.91). Oltre ad usare in modo improprio il termine
ashram, che non si addice alla tradizione buddhista tibetana,
l’autore descrive in modo assolutamente immaginativo il tipo di
condotta tenuto in questi gruppi di discepoli che si trovavano per
scelta a vivere al di fuori dei centri monastici. Non è esplicito
ciò che Angelini intenda per sperimentale. Errata è invece la
considerazione sul livello di capacità dei discepoli in base al
quale i maestri davano loro istruzioni: anche in ambito strettamente
monastico la procedura era la stessa. I testi tantrici in generale,
come ad esempio l’Hevajra tantra, offrono di partenza soluzioni
diverse in grado di rispondere alle differenti capacità spirituali
dell’adepto e del suo personale livello di evoluzione.
Discutibile è l’uso dei termini “berretti rossi” (p.93) o “berretti
gialli” (p.104), che ricorrono molte volte nel testo. A questo
proposito cito Erberto Lo bue che in questo modo ha commentato l’uso
del termine ‘berretto’ nella sua recensione alla pessima traduzione
del volume di Snellgrove e Richardson di Luni editore: «Di sapore un
po’ folcloristico e quasi militaresco è la traduzione del titolo
della terza parte, “I berretti gialli”, con riferimento ai seguaci
dell’ordine religioso dGe lugs pa (letteralmente “Quelli del Modello
di Virtù”): chiunque conosca la foggia dei copricapo indossati dai
monaci di quell’ordine in alcuni rituali converrà che l’uso del
termine “berretto” per rendere l’inglese “hat” è in tale contesto
discutibile» (Rivista degli Studi Orientali, 200, Roma, vol.LXXIII,
Fasc.1-4 (1999), p.336). Non si comprende il motivo della scelta del
termine “berretto” da parte di Angelini, che a p.104 dice: “La
scuola dei ghelupa, detta anche dei ‘berretti gialli’ – dal colore
del cappello che Tsonkapa adottò come copricapo religioso a
differenza del rosso dei kagyu”. Sembra consapevole si tratti di
cappelli e non berretti, dunque risulta incomprensibile il motivo di
tale scelta. In realtà, inoltre, il colore del cappello non è
distintivo di una scuola in particolare. In Ladakh, ad esempio,
vengono chiamati ser po (‘gialli’) sia i monaci appartenenti
all’ordine dGe lugs pa che quelli appartenenti all’ordine Sa skya pa.
Assolutamente inaccettabile è la mancanza di citazioni riguardanti
le fonti utilizzando parti di testi altrui, come ad esempio accade a
p.97-99 e in molti altri passaggi. Quando si aprono le virgolette e
si riporta un brano originale è necessario e corretto citarne la
fonte.
La descrizione generale della figura di Tsong ka pa, che appare come
un Martin Lutero della tradizione buddhista himalayana, è alquanto
discutibile. Angelini scrive: “egli si impegnò in una grande riforma
che aveva il fine di raddrizzare l’insana postura del sistema e
poneva l’accento sulla necessità di maggiore e ferrea disciplina
monastica” (p.105). È certamente vero che fu un maestro critico
verso tutte le forme di degenerazione religiosa, ma fu egli stesso
uno yogin (veste nella quale viene spesso raffigurato),
particolarmente interessato ai tantra, e un grande mistico. Passò
gran parte del suo tempo in ritiri di meditazione che duravano anche
anni ed ebbe un atteggiamento, tutto sommato, piuttosto schivo,
soprattutto nei confronti delle grandi personalità politiche
dell’epoca. Dire che “si impegnò a fondare e dirigere una grande
quantità di monasteri aderenti al nuovo indirizzo riformatore”
risulta contrastante con la personalità di Tsong ka pa, che
addirittura si trasferì a vivere in monastero solo durante la
vecchiaia e in seguito all’insistenza dei suoi discepoli.
Altre incongruenze sono rintracciabili nella narrazione delle
vicende biografiche del V Dalai Lama. Descrivendone l’apertura
mentale e l’atteggiamento non settario, Angelini afferma: “Sebbene
educato nella più stretta ortodossia ghelupa, col tempo egli sembrò
comprendere la ricchezza non settaria degli insegnamenti buddhisti e
si avvalse nella maturità del contributo di numerosi maestri delle
più svariate tradizioni fra le quali i nyigmapa” (p.119). La madre
del V Dalai Lama (1617-82) era di tradizione Nyingmapa. Crebbe
dunque in ambiente Nyigma e fu educato secondo questa tradizione.
Solo in seguito al suo riconoscimento ricevette insegnamenti più
strettamente dGe lugs pa, ma coltivò sempre il contatto con la
scuola d’origine e con i maestri della suddetta tradizione. Nel
descrivere il rituale del gCod, praticato dal V Dalai Lama, Angelini
parla di “preta invocati” per “divorare il corpo del meditante che
si offre in sacrificio” (119). Chiaramente, gli esseri invocati in
questo rituale non sono che proiezioni mentali, poiché, come
sostenuto da Giacomella Orofino “la radice di qualsiasi demone è da
ricercare nella propria mente” (Ma gcig, Canti spirituali, a cura di
G.Orofino, 1995, Milano: Adelphi), e l’offerta di sé a queste
creature è rituale e simbolica. Ciò che viene reciso, attraverso il
dono del proprio corpo, è l’orgoglio. Occorre precisare, inoltre,
che gli esseri invocati durante il gCod sono demoni o spiriti feroci
e non preta, i quali sono esseri famelici dotati, per loro natura,
di una gola strettissima che non gli consente di ingerire altro che
poche gocce d’acqua.
Imprecisa è anche questa affermazione: “Il sistema (monastico) non
verificava le vocazioni, né espelleva i novizi non adatti ad una
vita di preghiera, studio e meditazione, contemplando l’espulsione
solo per delitti gravi, quali l’omicidio o le relazioni
eterosessuali” (p.128). È noto che all’interno di istituzioni
esclusivamente maschili quali i monasteri si verificassero relazioni
omosessuali, ma questo non significa fosse la prassi e che tali
rapporti venissero accettati. L’affermazione di Angelini lascia
presumere l’opposto, contrariamente alla regola vigente del
celibato.
Un’altra affermazione di ignota provenienza è la seguente:
“Costruire un tempio è infatti considerato nel buddhismo tantrico un
atto di conquista spirituale di un determinato territorio: sigilli
magici iscritti in un cosmogramma che ridefinisce uno spazio e ne
attesta il possesso segreto, fabbrica di tecnologia sacra e
laboratorio alchemico di scienza spirituale” (p.201).
A pagina 211 l’autore identifica correttamente la divinità
sino-giapponese Guanyin con il bodhisattva Avalokitesvara ma poi
sostiene che ne sia anche l’“antagonista metafisica”, affermazione
oscura e scarsamente giustificata, dato che si tratta della stessa
divinità.
Concettualmente errata è la definizione di “Buddha viventi” (226)
attribuita a maestri spirituali e alla figura del Dalai Lama, poiché
i maestri terreni che abitano questo mondo non posso essere
tecnicamente dei Buddha, in quanto tale condizione presuppone la
morte definitiva e la non-rinascita sotto alcuna forma di vita, al
momento del trapasso nel Nirvana. Nessun maestro viene chiamato,
nella tradizione buddhista tibetana, in questo modo. Nemmeno il
Buddha storico Sakyamuni, che nei testi viene chiamato ‘Grande
Bodhisattva’. Chiamare Reting Rimpoche, maestro del Dalai Lama
eliminato per motivi politici, “Buddha di Reting” (p.251), con tono
vagamente sarcastico, appare esagerato e fuori luogo.
L’autore, riferendosi alle punizioni corporali che potevano
verificarsi negli ambienti monastici, sostiene che queste fossero
“la norma nella loro stessa pratica religiosa” (227). Pur ammettendo
che le punizioni corporali fossero davvero la “norma”, lo sarebbero
nella pratica ‘monastica’ e non ‘religiosa’.
A pagina 228 parla di “forze occulte”, piuttosto che di ‘forze
oscurantiste”, parlando dell’atteggiamento di chiusura del clero
tibetano al potere.
Talvolta, Angelini sembra poco informato sui fatti, ad esempio
quando scrive: “Finiva così la carriera di Tsarong, la cui unica
colpa fu quella di essere un fuori-casta” (p.228). In realtà,
Tsarong apparteneva ad una famiglia dell’aristocrazia tibetana e
quindi non poteva certo essere considerato fuori casta, se il
termine è usato nel suo corretto significato etimologico e
letterario. Se con la parola ‘casta’ Angelini voglia intendere il
termine con cui oggi in Italia viene chiamata la nostra classe
politica, allora avrebbe dovuto dire “fuori dal gioco politico di
alcuni”.
Eccessivamente enfatizzata è la descrizione dell’infanzia
dell’attuale Dalai Lama, che viene descritto come un bambino
strappato alla sua famiglia in giovanissima età. È noto che la
famiglia del Dalai Lama, si trasferì da un piccolo villaggio del
Tibet orientale a Lhasa, dove visse accanto al giovane Dalai Lama.
Inoltre, poche righe sotto, Angelini, raccontando la prima visita
del Dalai Lama in Cina, quando era ancora molto giovane, sostiene
che fu accompagnato dalla sua famiglia. Appare contrastante il fatto
che un bambino strappato alla sua famiglia compia i suoi viaggi
diplomatici con ancora la madre e i fratelli al seguito.
Il linguaggio stesso, usato da Angelini, risulta poco gradevole,
talora grossolano e, comunque, non pertinente al soggetto trattato.
A questo proposito si vedano le seguenti frasi: “vi sono nel nord
rimasugli etnici tibetani” (p.6); “altri luoghi da cui i tibetani
attinsero maestri e traduttori” (p.10); “una sorta di preti di
famiglia” (p.35); “è tempo che entri in scena uno dei grandi
protagonisti della nostra storia” (p.57); “si dovrà traversare la
pelle di quattro secoli prima di ritrovare un Tibet unito” (p.85);
“in grado di accogliere i migliori rimasugli della comunità
buddhista” (p.87); “in seguito ai travasi intellettuali” (p.88); “La
trasmissione dzochen, un po’ nello stile di Marpa, non dipende…”
(p.93); “La linea degli scopritori di tesori nascosti inizia con
gente del calibro di Dorje Zangpo” (p.94); “mito che crebbe in
seguito e si delineò secondo arzigogoli della mente che non hanno
ancora finito di stupire gli strizzacervelli” (p.123); “Inoltre
quella del monastero non era di istruzione, o di educazione
temporanea, ma una scelta di vita, con le motivazioni più diverse:
alcuni genitori coronavano la loro fede, in quanto un figlio in
monastero era un onore, oltreché un privilegio” (128); “Chi prima
era un compagno di merende ora era un nemico da flagellare” (193);
“Gyalo era (…) fluente in cinese” (302).
Per finire con veri e propri effetti speciali: “un mega ciclo
calcolato a partire dal Nirvana del Buddha, stelle e pianeti che
tornano senza esser presenti, catapulte con cui sconfiggere il
nemico nella ‘battaglia finale’, divinità da visualizzare nella
meditazione e poi sangue e sperma che giacciono come tesori
inesplosi nel corpo degli esseri senzienti. E una ruota del tempo,
Kalachakra, da conoscersi in quindici fasi, nel vuoto della
trasmissione iniziatica. Essa ha il potere di liberare l’individuo
dall’ignoranza del Tempo e dunque di estirpare il cancro della
Storia nel mondo” (p.7). Di tono volutamente sensazionalistico è
anche la frase di pagina 91, “Vi erano così monaci banditi, che
uccidevano e si cibavano di carne umana e si abbandonavano ai più
frequenti riti orgiastici a base di alcol e sesso credendo con
questo di illuminarsi”, che appare esagerata e contraddittoria. Se
si trattava di “monaci banditi” risulta chiaro che il loro intento
non era certo quello di illuminarsi bensì di approfittare di uno
status per fare tutt’altro. “Con le mani nel sangue ormai da tre
secoli, si ripeterono macabri riti di morte, macumbe tibetane,
intrighi, diplomatiche stregonerie di incalliti negromanti” (p.116).
Ciò che emerge da una prima lettura di questo libro è l’intento,
encomiabile, di descrivere in maniera oggettiva il susseguirsi di
vicende e di responsabilità politiche che hanno modellato la storia
del Tibet e la recente aggressione subita da parte della Cina.
Tuttavia, il libro scade in esagerazioni e sensazionalismi che non
fanno che gettare fumo negli occhi del lettore. Purtroppo non è
sufficiente servirsi unicamente della letteratura secondaria sulla
storia del Tibet, anche se cospicua. Per avventurarsi saggiamente in
un universo culturale così vasto e complicato è necessario essere
guidati da un maestro esperto, poiché, per dirlo con le parole dello
stesso Angelini, arginare il confronto con un maestro può risultare
una “scorciatoia pericolosa”, che può portare lo studioso “poco
sorvegliato verso i fondali bassi dell’io e affogare”.
Scheda "Tibet mito e storia"
http://www.marcovasta.net/libreria/LibreriaSingola.asp?id=7859
Nota editoriale
"Himalaya e dintorni" non è un prodotto editoriale, non viene
diffuso al pubblico con periodicità regolare, pertanto riteniamo che
non rientri nelle fattispecie della Legge 47, 8/2/48 e della legge 7
marzo 2001 n.62.
Archivio Arretrati
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